venerdì 21 gennaio 2011

La rivolta popolare araba terrorizza il vertice di Sharm-el-Shekh

di Umberto Mazzantini

LIVORNO. "Le Temps d'Algérie" titola: "La révolte populaire s'invite à Sharm el-Sheikh" per commentare il risultato del secondo summit economico arabo di Sharm el-Sheikh, in Egitto, dove i terrorizzati despoti "democratici" e i monarchi assoluti arabi hanno fatto i primi conti della rivoluzione dei gelsomini tunisina e delle rivolte che si annunciano dal Marocco all'Egitto, passando per l'Algeria già in fiamme.

Il mondo arabo sembra arrivato alla fine di un'epoca fatta di complicità con l'occidente, di falsa democrazia e di regimi cleptocratici che hanno svenduto le loro risorse e le braccia dei loro popoli al peggiore offerente. Mentre il Maghreb incuba le rivolte dei giovani laureati-disoccupati, la situazione precipita in Libano, il Sudan perde il suo Sud petrolifero, i poverissimi Stati del Sahel subiscono colpi di Stato a ripetizione e Al Qaeda rischia di mettere le mani sull'uranio di Areva, la Somalia è ormai diventata uno Stato fantasma, l'Egitto dell'eterna dittatura senile di Hosni Mubarak è in piena sindrome tunisina e scanna i suoi copti, lo Yemen esplode di profughi, tribalismo, integralismo e rischia una nuova secessione del Sud, le monarchie petrolifere della penisola araba guardano terrorizzate l'ennesima svolta a destra israeliana (con l'uscita dei laburisti da un governo sempre più xenofobo) ed ad una nuova possibile deflagrazione che potrebbe coinvolgere la sempre più instabile Giordania e soprattutto la misteriosa e pericolosa Siria, alleata dell'Iran che resiste nel suo immenso fortino nucleare e degli sciiti che la guerra occidentale ha portato al governo in Iraq.

Lo stesso compassato segretario della Lega Araba, Amr Moussa, ha ammonito i regnanti coronati e quelli eletti in elezioni truccate che sedevano al tavolo di Sharm el-Sheikh: «La rivoluzione in Tunisia non è lontana da ciò che noi discutiamo» ed ha sottolineato la necessità che i leader arabi «Siano all'altezza delle aspirazioni del loro popolo al progresso (...). L'anima araba è spezzata dalla povertà, dalla disoccupazione e dalla regressione degli indici dello sviluppo. La maggioranza di questi problemi non è stata risolta. I cittadini arabi sono in uno stato di collera e di frustrazione senza precedenti».

Sabah al-Ahmad al-Sabah, l'emiro del Kuwaït, monarca di uno Stato che vive di petrolio e di sfruttamento di una manodopera straniera (anche araba) senza diritti civili, ha detto magnanimamente: «Seguo da vicino gli sforzi dei nostri fratelli per riunirsi e superare questa fase difficile al fine di pervenire alla pace ed alla sicurezza», ma non ha avuto nemmeno il coraggio di dire la parola "Tunisia", che sembra sgomentare i regimi arabi quasi quanto fece la rivoluzione di ottobre del 1917 in Russia con le monarchie europee.

Il Rais egiziano Mubarak, al cui confronto il fuggitivo ex presidente tunisino Ben Ali e la sua cricca familiare di cleptomani sembrano dilettanti, si è finalmente accorto che «Lo sviluppo economico e sociale è una questione che riguarda l'avvenire dei Paesi arabi e la loro continuità. E' un'esigenza per la sicurezza nazionale».

Eppure, se si guardano gli indicatori del Pil dei Paesi arabi (e soprattutto le loro entrate petrolifere) sono in crescita costante e le delocalizzazioni industriali dalla costa nord del Mediterraneo procedono a ritmi forzati, almeno fino all'inaspettato intoppo tunisino. Mubarak lo sa bene, visto che il presidente francese Nicolas Sarkozy e gli altri europei lo hanno voluto come co-presidente dell'Union pour la Méditerranée nata proprio per facilitare gli affari e dare una mano ai cosiddetti "regimi moderati" arabi.

Le rivolte algerine, la transizione tunisina che si annuncia molto meno "addomesticabile" di quel che si credeva, il Libano che rischia di esplodere con l'uscita dal governo dei ministri di Hezbollah e dei suoi alleati islamici, hanno fatto dire, in un'intervista d Al-Arabiya, al ministro degli esteri saudita, il principe Saud al-Fayçal, che «La situazione è pericolosa», tanto che ha lanciato un avvertimento contro la "partizione" del Libano proprio mentre Arabia Saudita e Siria annunciavano la fine della loro mediazione nella crisi del Paese dei cedri per passare la mano a Qatar e Turchia.

I dieci capi di Stato e i premier ed i ministri arabi presenti a Sharm el-Sheikh hanno cercato di ritornare alle promesse fatte nel precedente summit del 2009 in Kuwait di rafforzamento delle interconnessioni elettriche, della rete ferroviaria, autostradale ed aerea e di creare un'unione doganale araba. Ma quel che batte alle porte dei palazzi del potere arabi è una incipiente crisi alimentare e delle risorse idriche e quel che rischia di bruciarle è la mancata realizzazione di programmi comuni contro la povertà e la disoccupazione e per l'istruzione e la formazione professionale. Il vertice si è anche trovato d'accordo sulla strategia araba per la riduzione dei rischi di catastrofi entro il 2020 e per affrontare «I ischi crescenti dovuti al degrado ambientale ed alle catastrofi che si verificano spesso a seguito di cambiamenti geologici e del riscaldamento globale e del loro impatto diretto sulla vita, le infrastrutture, i mezzi di sussistenza e lo sviluppo sostenibile».

Nonostante petrolio, gas ed uranio i 22 Paesi arabi producono solo il 2,5% del Pil mondiale e rappresentano una quota del 3% del commercio planetario, comprese le esportazioni petrolifere. Si tratta della mono-cultura degli idrocarburi che ha devastato un'economia teoricamente ricca come quella algerina. La "vera cooperazione globale" panaraba evocata a Sharm el-SheikhSharm el-Sheikh, come ha detto proprio il ministro degli esteri algerino Mourad Medelci alla vigilia del vertice, dovrà basarsi su programmi comuni nell'agricoltura, nell'industria, nel commercio e nei servizi e sviluppare le vie di comunicazione nel mondo arabo, se non vuole che la maledizione del petrolio accenda altri inestinguibili focolai. Ma Medelci ammette che l'approccio sbagliato del passato e la mancata cooperazione in campo economico e sociale hanno messo i Paesi arabi in condizione di non avere molto tempo a disposizione per risolvere i problemi e placare la montante rabbia popolare e la disperazione dei giovani che vedono lo spreco di immense risorse da parti di classi dirigenti insensibili e ingorde. Non solo nei poverissimi Mauritania, Mali, Niger, Ciad, ma anche in Paesi teoricamente ricchi, si parla ancora del raggiungimento degli Obiettivi del millennio per lo sviluppo, ma per raggiungerli ci vorrebbero un coraggio ed una volontà fino ad ora non dimostrati. Non basteranno certamente gli aiuti promessi dalla Banca mondiale e l'Arab fund for economic and social development istituito dal Kuwait con 2 miliardi di dollari, che dovrebbe servire a sostenere progetti piccoli e medi destinati a favorire l'assunzione dei giovani nei Paesi arabi.

La dichiarazione finale di Sharm el-Sheikh prova a mettere in fila nuovamente buoni propositi poco credibili senza la necessaria feroce autocritica di un potere spesso eterno e che condivide gli stessi meccanismi di un populismo paternalista ed autoritario che sfocia nella repressione e, quando va bene, nella "dittatura democratica" sostenuta con i manganelli ed i brogli. Non a caso i dirigenti arabi hanno voluto sottolineare solennemente l'impegno contro il terrorismo sotto tutte le sue forme (evidentemente non quelle di Stato...), evocato anche da Ben Ali prima della fuga con il bottino, di regimi che dell'incestuoso rapporto di reciproca dipendenza con i fantasmi sanguinari di Al Qaeda hanno fatto la loro ultima assicurazione sulla vita, le cui rate vengono pagate a Parigi, Londra, Washington, Berlino e Roma. I vacillanti regimi arabi, dopo la lezione Tunisina, sanno però che devono urgentemente trovare altre strade non percorse con i loro vecchi protettori coloniali, per questo il summit si è concluso con l'impegno a realizzare nuove partnership e alleanze con le nuove potenze internazionali;: «Abbiamo concordato sulla necessità di sviluppare un''azione araba congiunta per avere collettivamente blocchi arabo-internazionali e con le potenze regionali che includano Cina, India, Giappone, Turchia, Russia, i Paesi africani e i Paesi dell'America Latina».

Fonte www.greenreport.it

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