Ad oggi sono gia' stati incentivati impianti fotovoltaici per 3700 MW di potenza cumulativa, altri impianti per 3770 MW hanno chiesto di usufruire della 129/2010 (incentivi 2010 per impianti installati nel 2010 ma allacciati nel 2011). In realta' qualcuno di questi ultimi impianti ha gia' fatto domanda di incentivo ed e' compreso tra i 3700 MW incentivati. Pero' ufficialmente (con una asseverazione di un tecnico abilitato) sono stati gia' installati impianti per almeno 6000/6500 MW di potenza cumulativa.
Entro questa settimana Il governo, a quanto si e' capito, porra' l' obiettivo gia' esistente di 8000 MW nel 2020 come LIMITE VINCOLANTE delle incentivazioni (vincolo che prima non esisteva). Non sono previste eccezioni se non per impianti gia' autorizzati. Insomma, se saranno raggiunti 8000 MW il giorno prima dell' autorizzazione di un impianto questo non avra' incentivi.Non e' possibile prevedere quando sara' raggiunto questo limite (a dicembre nel giro di un mese sono spuntati improvvisamente 4000 MW), ma si prevede nell' anno in corso. Questa decisione annulla di fatto il conto energia 2011 che prevedeva incentivi fino al 2013 , con un limite vincolante di 3000 MW (ma solo per questo incentivo 2011) e 14 mesi di tempo ,dopo il raggiungimento di questo limite, per terminare gli impianti ormai progettati (anche quelli ancora non autorizzati). Sulla base di questo conto energia della durata di tre anni sono stati fatti investimenti e anche progetti di vita (anche se limitati ai prossimi tre anni). Io credo che Berlusconi cadra' prima del raggiungimento di 8000 MW di potenza fotovoltaica e si rimediera' a questo, ammesso che venga approvato cosi' (cosa che mi sembra assurda,nelle rinnovabili lavorano anche molti elettori di Berlusconi). Vi segnalo comunque l' ennesimo atto di questo governo che dimostra una scarsa lucidita' e molta approssimazione.
marco
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Colpo di spugna sul conto energia ?
C’è il rischio di una moratoria degli incentivi al fotovoltaico in Italia. E’ quanto si intuisce dalla bozza del decreto legislativo per il recepimento della direttiva rinnovabili 2009/28/CE. Il Consiglio dei Ministri dovrebbe approvare mercoledì il provvedimento. Il mondo del fotovoltaico e ambientalista è sul piede di guerra.
Lo avevamo ipotizzato viste le bordate di Confindustria e Autorità contro gli incentivi alle rinnovabili e al fotovoltaico in particolare e la probabile reazione emotiva per gli effetti del decreto "Salva Alcoa": ora c’è il rischio di una moratoria degli incentivi al fotovoltaico in Italia. E’ quanto si legge dalla bozza del decreto legislativo per il recepimento della direttiva rinnovabilI 2009/28/CE. In particolare sul fotovoltaico l’articolo 23 comma 11 lettera d) prevede che: “a decorrere dal 1 gennaio 2014 viene abrogato il conto energia. Nel caso di raggiungimento anticipato dell’obiettivo specifico per il solare fotovoltaico, fissato a 8.000 MW per il 2020 è sospesa l’assegnazione di incentivi per ulteriori produzioni da solare fotovoltaico fino alla determinazione, con decreto del Ministro dello sviluppo economico, da adottare di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del mare, sentita la Conferenza unificata, di nuovi obiettivi programmatici e delle modalità di perseguimento”. Il Consiglio dei Ministri dovrebbe approvare giovedì 3 marzo il provvedimento che rischia di bloccare inoltre anche lo sviluppo dell'eolico (ma di questo parleremo in un altro articolo).
Il rischio è forte, poiché l’obiettivo degli 8.000 MW previsto dal Piano di Azione Nazionale verrà raggiunto già entro l’estate (tra impianti collegati e in via di collegamento si superanno a fine primavera i 7 GW) e un provvedimento di questo tipo porterebbe oggi stesso a un blocco da parte delle banche dei finanziamenti di nuovi impianti visti i lunghi tempi di connessione e una corsa al fotofinish per accaparrarsi gli centinaia megawatt a disposizione. Già l’effetto annuncio di questo provvedimento avrà creato il panico. Inoltre, aspetto gravissimo, si avrebbe un impasse totale di un comparto che in questi due anni ha avuto la caratteristica, unica nell’industria nazionale, di essere anticiclico. Secondo le diverse valutazioni il fatturato 2010 del settore FV dovrebbe attestarsi tra 25 e 40 miliardi di euro, quindi più del 2% del Pil 2010.
Certo, una rivalutazione delle tariffe andrà fatta rapidamente, anche per accompagnare la tecnologia alla grid parity, ma con questo colpo di spugna si rischia di affossare migliaia di posti di lavoro e distruggere il lavoro di anni di centinaia di aziende che rappresentano una concreta realtà economico-produttiva e occupazionale di questo paese.
Con il raggiungimento degli 8.000 MW di potenza alcuni operatori hanno valutato che letasse annuali pagate dal settore (sugli utili e sul personale) ammonterebbero in totale a circa 2 miliardi di euro, mentre quelle pagate dai soggetti responsabili degli impianti saranno di ulteriori 0,5 miliardi di euro, a fronte di costi previsti in bolletta per circa 3,7 miliardi di euro. Il bilancio migliora se si considerano le multe evitate per le minori emissioni di CO2 rese possibili dalla diffusione del fotovoltaico e i costi evitati per la cassa integrazione (chiusura di aziende e licenziamenti) che viene pagata dallo Stato.
Perché il fotovoltaico fa così paura ai poteri energetici tradizionali? Forse perché, con i consumi elettrici attuali (300 TWh) già 8 GW di potenza installata rappresenterebbero una quota di produzione sul totale consumato piuttosto importante, cioè quasi il 3%? E se si puntasse, come sarebbe giusto, a 20 GW al 2020? Consideriamo che la Germania ha un obiettivo nazionale a fine decennio di 52 GW fotovoltaici.
Considerando che gli incentivi dovranno decrescere, come è tipico di ogni conto energia (o feed in tariff), con il primo obiettivo di 8 GW il costo sulla bolletta annuale per ogni famiglia non dovrebbe superare 28 euro; ma computando tutti i benefici che il settore verserà alle casse statali, questa spesa sarà inferiore ai 10 euro all’anno.
In merito agli incentivi, alcune associazioni del rinnovabili, come Ises Italia e Kyoto Club, ritengono sensato "sostituire l’ipotesi di adeguamento triennale degli incentivi con un meccanismo permanente per il loro adeguamento, correlato a parametri certi, come l’andamento dei costi a livello europeo delle singole tecnologie, del prezzo del kWh nel caso elettrico e del gas in quello termico, da definire all’interno del processo di revisione complessiva degli incentivi”.
Nelle prossime ore segnaleremo tutte le posizioni del mondo del fotovoltaico e le contromisure a questo scellerato provvedimento che speriamo venga immediatamente cancellato.
Leonardo Berlen
28 febbraio 2011
fonte www.qualenergia.it
lunedì 28 febbraio 2011
domenica 27 febbraio 2011
Associazione Internazionale Italia-Africa
Associazione Internazionale Italia-Africa onlus
CHI SIAMO
L’ Associazione Internazionale Italia-Africa onlus si e' costituita a Roma il 30 novembre 2010. E’ composta da persone nate in Italia e persone nate in Africa. Opera in Italia, prevalentemente in Toscana e Lazio, in Africa, soprattutto in Nigeria e Senegal, e in altre parti del mondo dove abbiamo rapporti di conoscenza ed amicizia.
OBIETTIVI
Lo scopo principale e’ far conoscere e favorire la diffusione delle energie rinnovabili, in modo particolare le energie solari, nei paesi africani e ovunque.
Educare all’uso equo e sobrio delle limitate risorse naturali del pianeta.
Promuovere una cultura ed azioni di pace e un graduale disarmo
DI COSA CI OCCUPIAMO
Di informazione, con una attenzione speciale alle scuole italiane ed africane di ogni ordine e grado
Di formazione professionale, organizzando corsi in Italia per persone straniere che possano poi portare le loro esperienze professionali nei paesi di origine.
Di consulenza ed assistenza a imprese,associazioni,istituzioni che vogliano collaborare con soggetti di altri paesi.
CONTATTI
REFERENTI Marco Palombo 346-2256671 e-mail elbano9@yahoo.it
Edwin Chimezie Aligwo e-mail aiiaonlus@gmail.com
Sede via del Cisternino n.69 00133 Roma
blog http://aiiaonlus.blogspot.com
http://energiapalombo.blogspot.com
Corsi a Roma di informatica. energie rinnovabili, italiano
in collaborazione con aziende del settore.
CHI SIAMO
L’ Associazione Internazionale Italia-Africa onlus si e' costituita a Roma il 30 novembre 2010. E’ composta da persone nate in Italia e persone nate in Africa. Opera in Italia, prevalentemente in Toscana e Lazio, in Africa, soprattutto in Nigeria e Senegal, e in altre parti del mondo dove abbiamo rapporti di conoscenza ed amicizia.
OBIETTIVI
Lo scopo principale e’ far conoscere e favorire la diffusione delle energie rinnovabili, in modo particolare le energie solari, nei paesi africani e ovunque.
Educare all’uso equo e sobrio delle limitate risorse naturali del pianeta.
Promuovere una cultura ed azioni di pace e un graduale disarmo
DI COSA CI OCCUPIAMO
Di informazione, con una attenzione speciale alle scuole italiane ed africane di ogni ordine e grado
Di formazione professionale, organizzando corsi in Italia per persone straniere che possano poi portare le loro esperienze professionali nei paesi di origine.
Di consulenza ed assistenza a imprese,associazioni,istituzioni che vogliano collaborare con soggetti di altri paesi.
CONTATTI
REFERENTI Marco Palombo 346-2256671 e-mail elbano9@yahoo.it
Edwin Chimezie Aligwo e-mail aiiaonlus@gmail.com
Sede via del Cisternino n.69 00133 Roma
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Corsi a Roma di informatica. energie rinnovabili, italiano
in collaborazione con aziende del settore.
Rivolta in Oman,fuoco nel palazzo del governo
IL PAESE, CHE CONFINA CON YEMEN E ARABIA, È DOMINATO DAL SULTANO BIN SAID DAL 1970
Rivolta in Oman: palazzo del governo in fiamme , due morti in piazza
Una manifestazione alla quale hanno preso parte circa 2000 persone per chiedere riforme è sfociata nel sangue
MILANO - Il palazzo del governo e il commissariato di polizia a Sohar sono in fiamme. Lo riferiscono testimoni. La città è stata teatro di una nuova manifestazione per chiedere riforme sfociata nel sangue: due i dimostranti uccisi quando la polizia ha sparato con proiettili di gomma per disperdere la folla.
CINQUE FERITI - Nel corso degli scontri altre cinque persone sono state ferite e alcuni veicoli dati alle fiamme. Al corteo avrebbero partecipato almeno 2.000 persone. L'agenzia ufficiale Ona ha confermato che la manifestazione ha avuto luogo, parlando di un numero imprecisato di vittime. Il Paese, che confina con Yemen e Arabia Saudita, è dominato dal sultano Qaboos bin Said dal 1970.
www.corriere.it
Rivolta in Oman: palazzo del governo in fiamme , due morti in piazza
Una manifestazione alla quale hanno preso parte circa 2000 persone per chiedere riforme è sfociata nel sangue
MILANO - Il palazzo del governo e il commissariato di polizia a Sohar sono in fiamme. Lo riferiscono testimoni. La città è stata teatro di una nuova manifestazione per chiedere riforme sfociata nel sangue: due i dimostranti uccisi quando la polizia ha sparato con proiettili di gomma per disperdere la folla.
CINQUE FERITI - Nel corso degli scontri altre cinque persone sono state ferite e alcuni veicoli dati alle fiamme. Al corteo avrebbero partecipato almeno 2.000 persone. L'agenzia ufficiale Ona ha confermato che la manifestazione ha avuto luogo, parlando di un numero imprecisato di vittime. Il Paese, che confina con Yemen e Arabia Saudita, è dominato dal sultano Qaboos bin Said dal 1970.
www.corriere.it
Cina, appelli on-line a proteste, il governo vuole evitare ogni piccolo segno di dissenso.
In Cina dunque c'e' chi lancia messaggi sperando in mobilitazioni e il Governo cerca di prevenire e bloccare ogni protesta.
CINA: APPELLO ON-LINE A PROTESTE, ALTA TENSIONE A PECHINO
Un appello on-line a proteste anti-governative in Cina ha messo in moto un forte dispiego di polizia a Pechino. Controlli ai passanti, limitazioni ai giornalisti stranieri (severamente vietato scattato foto) nel centro di Pechino e Shanghai. A innescare il giro di vite, un sito-web in Usa, che ha chiesto ai cinesi di emulare la 'rivoluzione dei gelsomini' che sta spazzando i regimi in Medio Oriente e ad organizzare manifestazioni per chiedere riforme democratiche. A Pechino, e' stato vietato l'accesso nella strada Wangfujing, una via commerciale centralissima, gia' epicentro di proteste domenica scorsa. A Shanghai la polizia ha portato via 5 persone: uno stava scattando foto .
CINA: APPELLO ON-LINE A PROTESTE, ALTA TENSIONE A PECHINO
Un appello on-line a proteste anti-governative in Cina ha messo in moto un forte dispiego di polizia a Pechino. Controlli ai passanti, limitazioni ai giornalisti stranieri (severamente vietato scattato foto) nel centro di Pechino e Shanghai. A innescare il giro di vite, un sito-web in Usa, che ha chiesto ai cinesi di emulare la 'rivoluzione dei gelsomini' che sta spazzando i regimi in Medio Oriente e ad organizzare manifestazioni per chiedere riforme democratiche. A Pechino, e' stato vietato l'accesso nella strada Wangfujing, una via commerciale centralissima, gia' epicentro di proteste domenica scorsa. A Shanghai la polizia ha portato via 5 persone: uno stava scattando foto .
sabato 26 febbraio 2011
La Cina e il gelsomino
La Twitter-rivoluzione non funziona oltre Muraglia. Il mutamento ha ritmi diversi
Con il gelsomino, i cinesi ci fanno solo il tè. Così, quando si è diffusa la notizia che un anonimo microblogger aveva postato su Twitter l'appello a fare una "rivoluzione dei gelsomini" nel Celeste Impero, indicando perfino quando e dove (il 20 febbraio, alle 14.00 in alcuni luoghi simbolo delle maggiori città), quasi tutti i cinesi e i conoscitori della Cina hanno pensato a uno scherzo o a una provocazione di matrice straniera.
Sono state le forze di sicurezza e la voglia di "evento" dei media occidentali a creare la notizia che di fatto non c'era.
Le prime hanno messo in atto un preventivo giro di vite - invitando qualche dissidente a "prendere il tè" - e presidiato in forze lo spazio antistante il McDonald's di Wangfujing, la maggiore via commerciale di Pechino, uno dei luoghi indicati dall'anonimo micro-postatore. Ad attenderli c'era uno spiegamento di zoom e videocamere degno di ben altra causa e così sono accorsi anche i curiosi che magari stavano da quelle parti per fare shopping, la polizia ha spintonato un paio di persone e la faccenda si è chiusa lì. Però tutti ne hanno parlato.
La paranoia della sicurezza cinese fa quindi il gioco della propaganda occidentale che, però, riesce a fare proseliti solo in Occidente: un circolo vizioso e un gioco a somma zero.
Il commento più interessante è forse quello di C. Custer sul blog ChinaGeeks: "È chiaro che se ci sarà qualche cambiamento in Cina, questo verrà dall'interno. Una rivoluzione non può essere auspicata o 'twittata' dai cinesi oltremare o da troppo zelanti fan di Twitter inebriati dalle cosiddette 'loro' vittorie in Nord Africa".
Ma come può avvenire una trasformazione - se non una rivoluzione - "secondo caratteristiche cinesi"? Un mutamento, si intende, mediato proprio dai social media?
Il Twitter cinese si chiama Sina Weibo. Nel ventesimo anniversario degli eventi di piazza Tiananmen - giugno 2009 - il governo cinese bloccò Twitter. Un mese dopo, durante la rivolta in Xinjiang - anche Facebook venne oscurato. Il vuoto lasciato dai social media importati dagli Usa venne riempito proprio da Sina Weibo, che seppe cogliere l'attimo.
Prodotto da Sina Corp., la piattaforma di microblogging "autarchica" intercetta ormai l'87 per cento del traffico cinese. Come il Twitter "originale", limita i messaggi a 140 caratteri, ma con quel numero di caratteri cinesi si può dire molto di più di quanto sia fattibile con le nostre lettere alfabetiche. Su Sina Weibo è possibile inoltre postare foto e video. Così vi circolano post sensibili e messaggi critici (e ironici).
Come quello di Yang Hengjun, un noto blogger e professionista che a proposito di Libia scrive: "Grande novità! Ci sono solide prove che la Cina esporta i propri valori: nel suo discorso in televisione, il leader libico e compagno rivoluzionario Gheddafi ha detto che ha studiato l'indomita resistenza cinese all'interferenza straniera nei propri affari interni e che non avrebbe lesinato sull'intervento militare per reprimere chi causa disordine, per preservare la stabilità e l'unità nazionale. A quanto ci risulta, questa è la prima volta che un leader straniero dichiara pubblicamente di avere imparato dall'esperienza della Cina."
Il messaggio è stato ripreso e ripostato non meno di quattrocento volte in circa quaranta minuti, poi è sparito.
D'altra parte, il Twitter prodotto in casa, seppur scomodo, svolge per il potere cinese anche una funzione utile, perché è un collegamento tra i funzionari e le pulsioni che sorgono dal basso.
Secondo il giornale finanziario I-meigu, un post di Li Dongsheng - deputato all'assemblea del popolo e presidente del Tcl Group (prodotti elettronici) - ha per esempio provocato un fuoco di fila di circa settemila commenti. Li chiedeva consigli e proposte da trasmettere al congresso nazionale del popolo. La maggior parte dei post suggeriva riforme in ambiti molto materiali, che riguardano i livelli di vita: prezzo della casa, istruzione, fisco e sistema sanitario.
Così da un lato circolano informazioni scomode, dall'altro si trasmettono informazioni che innescano una trasformazione. Solo quelle, ovviamente, che possono essere recepite senza provocare "disordine" - parola spauracchio per tutti i cinesi - senza cioè mettere in dubbio la struttura fondamentale del potere.
Con il gelsomino, i cinesi ci fanno solo il tè. Produce un delicato aroma che si distingue appena dall'acqua calda. Ai cinesi non piace il nostro tè, è troppo forte.
Fonte www.peacereporter.net
Con il gelsomino, i cinesi ci fanno solo il tè. Così, quando si è diffusa la notizia che un anonimo microblogger aveva postato su Twitter l'appello a fare una "rivoluzione dei gelsomini" nel Celeste Impero, indicando perfino quando e dove (il 20 febbraio, alle 14.00 in alcuni luoghi simbolo delle maggiori città), quasi tutti i cinesi e i conoscitori della Cina hanno pensato a uno scherzo o a una provocazione di matrice straniera.
Sono state le forze di sicurezza e la voglia di "evento" dei media occidentali a creare la notizia che di fatto non c'era.
Le prime hanno messo in atto un preventivo giro di vite - invitando qualche dissidente a "prendere il tè" - e presidiato in forze lo spazio antistante il McDonald's di Wangfujing, la maggiore via commerciale di Pechino, uno dei luoghi indicati dall'anonimo micro-postatore. Ad attenderli c'era uno spiegamento di zoom e videocamere degno di ben altra causa e così sono accorsi anche i curiosi che magari stavano da quelle parti per fare shopping, la polizia ha spintonato un paio di persone e la faccenda si è chiusa lì. Però tutti ne hanno parlato.
La paranoia della sicurezza cinese fa quindi il gioco della propaganda occidentale che, però, riesce a fare proseliti solo in Occidente: un circolo vizioso e un gioco a somma zero.
Il commento più interessante è forse quello di C. Custer sul blog ChinaGeeks: "È chiaro che se ci sarà qualche cambiamento in Cina, questo verrà dall'interno. Una rivoluzione non può essere auspicata o 'twittata' dai cinesi oltremare o da troppo zelanti fan di Twitter inebriati dalle cosiddette 'loro' vittorie in Nord Africa".
Ma come può avvenire una trasformazione - se non una rivoluzione - "secondo caratteristiche cinesi"? Un mutamento, si intende, mediato proprio dai social media?
Il Twitter cinese si chiama Sina Weibo. Nel ventesimo anniversario degli eventi di piazza Tiananmen - giugno 2009 - il governo cinese bloccò Twitter. Un mese dopo, durante la rivolta in Xinjiang - anche Facebook venne oscurato. Il vuoto lasciato dai social media importati dagli Usa venne riempito proprio da Sina Weibo, che seppe cogliere l'attimo.
Prodotto da Sina Corp., la piattaforma di microblogging "autarchica" intercetta ormai l'87 per cento del traffico cinese. Come il Twitter "originale", limita i messaggi a 140 caratteri, ma con quel numero di caratteri cinesi si può dire molto di più di quanto sia fattibile con le nostre lettere alfabetiche. Su Sina Weibo è possibile inoltre postare foto e video. Così vi circolano post sensibili e messaggi critici (e ironici).
Come quello di Yang Hengjun, un noto blogger e professionista che a proposito di Libia scrive: "Grande novità! Ci sono solide prove che la Cina esporta i propri valori: nel suo discorso in televisione, il leader libico e compagno rivoluzionario Gheddafi ha detto che ha studiato l'indomita resistenza cinese all'interferenza straniera nei propri affari interni e che non avrebbe lesinato sull'intervento militare per reprimere chi causa disordine, per preservare la stabilità e l'unità nazionale. A quanto ci risulta, questa è la prima volta che un leader straniero dichiara pubblicamente di avere imparato dall'esperienza della Cina."
Il messaggio è stato ripreso e ripostato non meno di quattrocento volte in circa quaranta minuti, poi è sparito.
D'altra parte, il Twitter prodotto in casa, seppur scomodo, svolge per il potere cinese anche una funzione utile, perché è un collegamento tra i funzionari e le pulsioni che sorgono dal basso.
Secondo il giornale finanziario I-meigu, un post di Li Dongsheng - deputato all'assemblea del popolo e presidente del Tcl Group (prodotti elettronici) - ha per esempio provocato un fuoco di fila di circa settemila commenti. Li chiedeva consigli e proposte da trasmettere al congresso nazionale del popolo. La maggior parte dei post suggeriva riforme in ambiti molto materiali, che riguardano i livelli di vita: prezzo della casa, istruzione, fisco e sistema sanitario.
Così da un lato circolano informazioni scomode, dall'altro si trasmettono informazioni che innescano una trasformazione. Solo quelle, ovviamente, che possono essere recepite senza provocare "disordine" - parola spauracchio per tutti i cinesi - senza cioè mettere in dubbio la struttura fondamentale del potere.
Con il gelsomino, i cinesi ci fanno solo il tè. Produce un delicato aroma che si distingue appena dall'acqua calda. Ai cinesi non piace il nostro tè, è troppo forte.
Fonte www.peacereporter.net
venerdì 25 febbraio 2011
Menapace: l'Italia non segua la Nato in Libia
Lidia Menapace
Alla prima apertura di pagina di un quotidiano, alla prima parola da un teleschermo,
l’impressione è di pericolosa meschinità: dico, sulla questione libica. Non che per il resto sia meglio, però è meno pericoloso. Invece la crisi libica, dopo e insieme ai movimenti democratici successi in Tunisia ed Egitto, ci ricorda che il Mediterraneo è una delle zone calde e incerte del pianeta, importante per risorse (petrolio, se non altro), storia (antica e poi coloniale e decolonizzazione vera e finta) e per l’incontro/scontro di civiltà e religioni.
La prima cosa di cui si sente la mancanza sono le Nazioni Unite:
se un evento si sarebbe dovuto affrontare - secondo la Carta, là dove sentenzia che la guerra è un crimine e propone di affrontarla dal Consiglio di sicurezza - con corpi di polizia internazionale, che chiedono tribunali e diritto della stessa
natura e livello, ci si accorge che di ciò non vi è quasi nulla. Perciò (ricordando quanto le beghe europee per stare nel consiglio di sicurezza abbiano ostacolato il cammino), quando Obama cerca di rimediare all’assenza di strumenti internazionali adeguati, finisce per indicare la Nato e dopo aver interpellato Francia e Inghilterra, telefona anche a Berlusconi chiedendogli di collaborare.
Non avendo predisposto un corpo di polizia internazionale, si ricade
nell’ipocrisia delle spedizioni militari travestite da strumenti “umanitari”! La prima cosa da dire a voce spiegata è che una nazione ex coloniale proprio in quel paese, ed espressione di un colonialismo duro e particolarmente disumano, non può essere di nuovo presente in armi lì senza provocare reazioni popolari molto contrarie e quindi aggravare la situazione e non essere di aiuto in operazioni di conciliazione politica e di democrazia.
Dunque prima di tutto: no all’inclusione dell’Italia in una qualsiasi spedizione Nato in Libia.
La stasi e assenza europea in una crisi che si svolge ai suoi confini e
in paesi che si affacciano sul Mediterraneo è un segno molto preciso della caduta dell’Europa e della sua involuzione profonda. Poiché l’Europa è governata soprattutto da governi di centrodestra, si potrebbe persino pensare a sinistra: adesso se
la cavino, dopo che hanno addirittura cercato di far approvare come Costituzione un testo ideologicamente (nel senso cattivo del termine) liberista mercantile e di destra poco liberale: ma la situazione è troppo pericolosa per godersi passivamente questa soddisfazione.
da Liberazione di sabato 26 febbraio
Alla prima apertura di pagina di un quotidiano, alla prima parola da un teleschermo,
l’impressione è di pericolosa meschinità: dico, sulla questione libica. Non che per il resto sia meglio, però è meno pericoloso. Invece la crisi libica, dopo e insieme ai movimenti democratici successi in Tunisia ed Egitto, ci ricorda che il Mediterraneo è una delle zone calde e incerte del pianeta, importante per risorse (petrolio, se non altro), storia (antica e poi coloniale e decolonizzazione vera e finta) e per l’incontro/scontro di civiltà e religioni.
La prima cosa di cui si sente la mancanza sono le Nazioni Unite:
se un evento si sarebbe dovuto affrontare - secondo la Carta, là dove sentenzia che la guerra è un crimine e propone di affrontarla dal Consiglio di sicurezza - con corpi di polizia internazionale, che chiedono tribunali e diritto della stessa
natura e livello, ci si accorge che di ciò non vi è quasi nulla. Perciò (ricordando quanto le beghe europee per stare nel consiglio di sicurezza abbiano ostacolato il cammino), quando Obama cerca di rimediare all’assenza di strumenti internazionali adeguati, finisce per indicare la Nato e dopo aver interpellato Francia e Inghilterra, telefona anche a Berlusconi chiedendogli di collaborare.
Non avendo predisposto un corpo di polizia internazionale, si ricade
nell’ipocrisia delle spedizioni militari travestite da strumenti “umanitari”! La prima cosa da dire a voce spiegata è che una nazione ex coloniale proprio in quel paese, ed espressione di un colonialismo duro e particolarmente disumano, non può essere di nuovo presente in armi lì senza provocare reazioni popolari molto contrarie e quindi aggravare la situazione e non essere di aiuto in operazioni di conciliazione politica e di democrazia.
Dunque prima di tutto: no all’inclusione dell’Italia in una qualsiasi spedizione Nato in Libia.
La stasi e assenza europea in una crisi che si svolge ai suoi confini e
in paesi che si affacciano sul Mediterraneo è un segno molto preciso della caduta dell’Europa e della sua involuzione profonda. Poiché l’Europa è governata soprattutto da governi di centrodestra, si potrebbe persino pensare a sinistra: adesso se
la cavino, dopo che hanno addirittura cercato di far approvare come Costituzione un testo ideologicamente (nel senso cattivo del termine) liberista mercantile e di destra poco liberale: ma la situazione è troppo pericolosa per godersi passivamente questa soddisfazione.
da Liberazione di sabato 26 febbraio
Libia, accoglienza per tutti ! Nessuno e' straniero.
Una nuova rivoluzione della gente comune albeggia
nei paesi arabi dando speranza in quei luoghi e a noi tutti.
Nel frattempo però milioni di persone,
a causa degli oppressori locali e mondiali,
rischiando la vita come in Libia, sono costretti all'esodo.
LA TERRA È DI TUTTI,
NESSUNO È STRANIERO
Questo pianeta su cui abitiamo è luogo di tutti e proprietà
di nessuno. Tutti dobbiamo poterci spostare liberamente, tanto più
se siamo costretti a fuggire per salvarci da un massacro come quello inaudito
che sta avvenendo in Libia: in questo caso l’unica vera speranza su
cui poter contare è il soccorso di altri esseri umani.
Ci affacciamo sullo stesso mare, facciamo parte della stessa famiglia
umana, la sorte degli uni è profondamente collegata a quella degli altri.
In nome della comune umanità prepariamoci ad uno sforzo straordinario
di accoglienza solidale.
Gli stati della riva Nord del Mediterraneo, complici del tiranno assassino
Gheddafi e preoccupati solo dei loro sporchi affari, preparano ai profughi
un trattamento disumano: li interneranno, schederanno, dislocheranno,
respingeranno.
Ciò che abbiamo conosciuto e combattuto in questi decenni a fianco delle
persone immigrate si moltiplicherà in un tempo concentrato: perciò è
necessario e urgente moltiplicare l’impegno e gli sforzi di tutti coloro che
sono disposti ad accogliere tutti con solidarietà e generosità, a difenderli
e proteggerli dal cinismo degli stati, e specialmente di quello italiano,
complice del sangue che scorre nelle terre di Libia.
ACCOGLIENZA PER TUTTI!
Fonte www.lacomuneonline.it
nei paesi arabi dando speranza in quei luoghi e a noi tutti.
Nel frattempo però milioni di persone,
a causa degli oppressori locali e mondiali,
rischiando la vita come in Libia, sono costretti all'esodo.
LA TERRA È DI TUTTI,
NESSUNO È STRANIERO
Questo pianeta su cui abitiamo è luogo di tutti e proprietà
di nessuno. Tutti dobbiamo poterci spostare liberamente, tanto più
se siamo costretti a fuggire per salvarci da un massacro come quello inaudito
che sta avvenendo in Libia: in questo caso l’unica vera speranza su
cui poter contare è il soccorso di altri esseri umani.
Ci affacciamo sullo stesso mare, facciamo parte della stessa famiglia
umana, la sorte degli uni è profondamente collegata a quella degli altri.
In nome della comune umanità prepariamoci ad uno sforzo straordinario
di accoglienza solidale.
Gli stati della riva Nord del Mediterraneo, complici del tiranno assassino
Gheddafi e preoccupati solo dei loro sporchi affari, preparano ai profughi
un trattamento disumano: li interneranno, schederanno, dislocheranno,
respingeranno.
Ciò che abbiamo conosciuto e combattuto in questi decenni a fianco delle
persone immigrate si moltiplicherà in un tempo concentrato: perciò è
necessario e urgente moltiplicare l’impegno e gli sforzi di tutti coloro che
sono disposti ad accogliere tutti con solidarietà e generosità, a difenderli
e proteggerli dal cinismo degli stati, e specialmente di quello italiano,
complice del sangue che scorre nelle terre di Libia.
ACCOGLIENZA PER TUTTI!
Fonte www.lacomuneonline.it
giovedì 24 febbraio 2011
Fermiamo la strage in Libia, accogliamo chi arriva dai paesi arabi in rivolta.
Solidarietà con i popoli arabi in rivolta !
Fermiamo la strage di Gheddafi e del suo regime criminale in Libia !
Accogliamo i fratelli immigrati che arrivano da quei paesi.
La Tunisia ha dato vita ad una rivolta che ha cacciato Ben Alì lottando contro il suo regime corrotto. In Egitto una vera e propria rivoluzione ha portato milioni di persone a mandar via Moubarak ed ha iniziare una nuova era. Anche in Barhein, in Yemen ed in Algeria vi sono rivolte popolari.
La scintilla della rivolta araba incendia anche la Libia, da oltre quarant’anni sotto il tallone del feroce regime guidato da Gheddafi. Con grande coraggio, settori crescenti di popolazione manifestano da giorni nonostante una repressione durissima. Le poche notizie che filtrano parlano di oltre 80 morti e dell’impiego dell’esercito, in particolare a Bengasi.
Stiamo assistendo ad una strage feroce nell’indifferenza e nella complicità delle democrazie occidentali.
Gheddafi sta aiutando l’occidente ha fermare e reprimere i profughi e gli immigrati che cercano di
partire per una vita migliore e provenendo da molti paesi africani transitano in Libia.
Le carceri ed i campi profughi libici sono pieni di immigrati trattati come animali.
Gheddafi è amico del governo e dello stato italiano che lo appoggia e lo difende. In questi giorni Berlusconi ha detto che non vuole disturbare Gheddafi. Ciò vuol dire una complicità vergognosa nei confronti della strage in Libia.
Siamo al fianco dei giovani libici che con coraggio hanno ripreso il vento rivoluzionario e di libertà che soffia in tutto il mondo arabo. Nell’esprimere la nostra solidarietà verso le loro aspirazioni e contro la criminale repressione, fermiamo la strage! Accogliamo i fratelli immigrati che lasciano quei paesi alla ricerca di un futuro migliore, e che il ministro Maroni con le autorità europea vogliono respingere.
Associazione antirazzista “3 febbraio”
Fermiamo la strage di Gheddafi e del suo regime criminale in Libia !
Accogliamo i fratelli immigrati che arrivano da quei paesi.
La Tunisia ha dato vita ad una rivolta che ha cacciato Ben Alì lottando contro il suo regime corrotto. In Egitto una vera e propria rivoluzione ha portato milioni di persone a mandar via Moubarak ed ha iniziare una nuova era. Anche in Barhein, in Yemen ed in Algeria vi sono rivolte popolari.
La scintilla della rivolta araba incendia anche la Libia, da oltre quarant’anni sotto il tallone del feroce regime guidato da Gheddafi. Con grande coraggio, settori crescenti di popolazione manifestano da giorni nonostante una repressione durissima. Le poche notizie che filtrano parlano di oltre 80 morti e dell’impiego dell’esercito, in particolare a Bengasi.
Stiamo assistendo ad una strage feroce nell’indifferenza e nella complicità delle democrazie occidentali.
Gheddafi sta aiutando l’occidente ha fermare e reprimere i profughi e gli immigrati che cercano di
partire per una vita migliore e provenendo da molti paesi africani transitano in Libia.
Le carceri ed i campi profughi libici sono pieni di immigrati trattati come animali.
Gheddafi è amico del governo e dello stato italiano che lo appoggia e lo difende. In questi giorni Berlusconi ha detto che non vuole disturbare Gheddafi. Ciò vuol dire una complicità vergognosa nei confronti della strage in Libia.
Siamo al fianco dei giovani libici che con coraggio hanno ripreso il vento rivoluzionario e di libertà che soffia in tutto il mondo arabo. Nell’esprimere la nostra solidarietà verso le loro aspirazioni e contro la criminale repressione, fermiamo la strage! Accogliamo i fratelli immigrati che lasciano quei paesi alla ricerca di un futuro migliore, e che il ministro Maroni con le autorità europea vogliono respingere.
Associazione antirazzista “3 febbraio”
La Libia,le tre scimmiette,Confindustria e i pacifisti
di Umberto Mazzantini
LIVORNO. Dalla Libia arrivano le immagini orripilanti di un genocidio nel quale un regime folle sprofonda il suo popolo nelle fosse comuni e nel sangue. Al Arabiya parla di 10mila morti, altri di 50.000. Bengasi si è liberata e i mercenari di Gheddafi bombardano Zawia, mentre gli insorti marciano verso Tripoli, dove le guardie pretoriane del dittatore e i fedelissimi del regime hanno già inondato le strade del sangue dei ribelli. Obama si dice sdegnato, mentre il nostro governo balbetta e invoca pacificazione davanti al massacro di un popolo, e pare più più preoccupato per il gas e il petrolio, per i lucrosi affari di Stato e per il crollo del muro anti-immigrati fatto di omicidi, vessazioni e torture, che Gheddafi aveva costruito con i nostri soldi e le nostre armi...
In tutto questo fa certamente bene leggere sul Sole 24 Ore di oggi l'articolo "Tre scimmiette nel deserto" di Christian Rocca che sottolinea il pilatismo complice del nostro governo e conclude: «L'idea del ministro Franco Frattini, secondo cui non è compito dell'Europa interferire negli affari interni della Libia, non è solo miope, sbagliata e fondata sull'illusione che il regime alla fine si salverà. È anche diametralmente opposta a un'ormai consolidata politica estera italiana, condivisa dai governi di centro-sinistra (Somalia, Serbia, Albania, Libano) e di centro-destra (Iraq e Afghanistan) e incentrata sul diritto all'ingerenza democratica e sul dovere d'intervenire per fermare i massacri a pochi chilometri di distanza da casa nostra», Ma fa male leggere sullo stesso giornale il furbesco cerchiobottismo del breve articolo non firmato (e quindi attribuibile alla direzione) intitolato "Non commuove il dolore della Libia" che, come per un ormai collaudato riflesso condizionato, se la prende con i pacifisti italiani: «Stupisce che questa mattanza stia passando nel silenzio assordante di associazioni, organismi, enti sempre impegnati in prima fila quando bisogna, meritoriamente, difendere i diritti dei popoli oppressi in tutto il mondo. Fino ad oggi non abbiamo avuto notizia di condanne, né alte né basse, da parte di nessuno. Niente manifestazioni, nessuna bandiera della pace esposta, nessun corteo pacifista. Niente strali perché nessuno tocchi Caino. Eppure, al contrario, i manifestanti libici stanno cercando di liberarsi del Colonnello Gheddafi, uno dei dittatori più sanguinari dell'ultimo secolo. Sarà la stanchezza, sarà la rassegnazione, ma per i morti in Libia s'ode un silenzio assordante».
Più che assordato il giornale della Confindustria sembra sordo e cieco, perché le voci delle associazioni pacifiste e per i diritti umani si erano levate (e si levano) da anni in tutto il mondo, purtroppo inascoltate dagli imprenditori "pragmatici" che con il regime genocida Libico facevano (e fanno) affari d'oro. Non avevano visto gli industriali italiani, fin dal tempo di Gheddafi nella Fiat e nella Juventus, cosa succedeva nella nostra ex colonia? Non avevano capito quale era il prezzo dei loro affari quando seguivano in codazzi festanti il nostro capo del governo nelle tende beduine del dittatore? Non avevano capito quanto sangue, dolore, ingiustizia e sopraffazione c'era dietro l'accordo Libia-Italia che hanno calorosamente applaudito e che, in cambio della repressione dei migranti e dei danni di guerra per il colonialismo fascista, dava all'Italia ed alle industrie parastatali e private, appalti miliardari per costruire autostrade di regime e per trivellare altro gas e petrolio? Cosa pensavano gli industriali italiani quando, scortati da Berlusconi e dai suoi ministri, stringeva sorridente la mano di Gheddafi in occasione delle sue visite romane con tende, cavalli e hostess al seguito che ci hanno resi ridicoli (ancora una volta di più) davanti al mondo? Qualcuno si ricorda un qualche adirato commento confindustriale in occasione del baciamano di Berlusconi a Gheddafi in Libia che sta facendo il giro del web come dimostrazione dell'assoluta complicità del nostro governo con l'aguzzino di Tripoli?
Probabilmente tra le tre scimmiette del deserto Confindustria è la più grossa e la più cieca, sorda e muta nello stesso tempo... altro che prendersela con i pacifisti che posizione contro Gheddafi e il suo vergognoso regime l'hanno presa.
Non è un caso se i primi a scappare dalla Libia in fiamme siano stati gli italiani e i cinesi, ma con una differenza: noi siamo ancora una democrazia, la Cina è una dittatura che fa affari indifferentemente con tutte le dittature senza chiedere in cambio certo il rispetto dei diritti umani o la libertà di stampa, di riunione e di voto. Anzi in quel che succede nel mondo arabo e nelle sue rivoluzioni c'è anche un'altra differenza tutta italiota, che un forse malinteso amor di patria (o speriamo una tardiva vergogna) hanno fatto sparire dalle pagine di quasi tutti i nostri giornali: il nostro Paese, l'Italia, è il primo partner commerciale della Libia, ma era anche il primo partner commerciale della dittatura tunisina di Ben Ali (circa 500 aziende italiane nel più piccolo Paese del Nord Africa) e il secondo partner commerciale della dittatura egiziana di Hosni Mubarak. Non lo sapevano Confindustria e il Sole 24 Ore che l'Italia e la sua imprenditoria globalizzata stavano collaborando, arricchendo e sostenendo alcuni «Dei dittatori più sanguinari dell'ultimo secolo»?
Il Sole 24 Ore riesce a vedere qualche sostanziale differenza etica e di approccio politico tra questi due comunicati di Federpetroli e Legambiente? Fra un'associazione di imprenditori ed una dichiaratamente pacifista?
Dice il presidente FederPetroli Italia, Michele Marsiglia, che sta monitorando ora per ora la situazione libica: «Secondo le fonti a noi pervenute e la situazione che in meno di 24 ore è evoluta, in Libia sono iniziate azioni di bombardamento su diverse città, a questo punto il rischio è evidente per il fattore umano in primis e, per tutte le infrastrutture presenti in Libia. Come nella Guerra del Golfo, se la posizione del Rais libico sarà ormai senza via di uscita, non ci sarà scelta su chi e dove bombardare, il danno alle infrastrutture energetiche sarebbe incalcolabile per milioni di euro, la preoccupazione non sarà più quella della fonte di approvvigionamento».
Dice Rossella Muroni, direttore generale di Legambiente: «La comunità internazionale non può rimanere in silenzio di fronte a un tale genocidio. Imbarazzante il comportamento dell'Italia. Si aprano le frontiere e si predisponga invece, un idoneo e immediato intervento. Mentre si consuma un eccidio senza precedenti in Libia, l'unica preoccupazione dell'Italia è quella che non si rompa la "diga anticlandestini", creata con il trattato Italia-Libia. Siamo imbarazzati dai rapporti e dalle convenzioni stabilite dal nostro Paese con il colonnello Gheddafi sulla "prevenzione clandestina", dietro cui si nascondono continue violazioni dei diritti umani. E' necessario che il nostro Paese accolga l'appello dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati e apra le frontiere nazionali e ci si schieri concretamente a favore di un intervento immediato della Comunità internazionale per fermare al più presto questo genocidio».
E' evidente chi pensa al petrolio e chi al popolo libico, e non da ora. Forse quella del Sole è una voluta cantonata, un espediente polemico per evitare un'autocritica che sarebbe necessaria, perché con i morti per le strade e gli imprenditori italiani che scappano da Tripoli la miglior difesa non è certo l'attacco al presunto disinteresse dei pacifisti che hanno sempre gridato nel deserto muto e sordo della politica e dell'imprenditoria italiana, mentre nelle tende beduine di Gheddafi le tre scimmiette si tappavano occhi, orecchi e bocche e facevano la fila festose per firmare accordi petroliferi e per vendere le armi che oggi vengono usate per uccidere chi chiede libertà e pace.
Fonte www.greenreport.it
LIVORNO. Dalla Libia arrivano le immagini orripilanti di un genocidio nel quale un regime folle sprofonda il suo popolo nelle fosse comuni e nel sangue. Al Arabiya parla di 10mila morti, altri di 50.000. Bengasi si è liberata e i mercenari di Gheddafi bombardano Zawia, mentre gli insorti marciano verso Tripoli, dove le guardie pretoriane del dittatore e i fedelissimi del regime hanno già inondato le strade del sangue dei ribelli. Obama si dice sdegnato, mentre il nostro governo balbetta e invoca pacificazione davanti al massacro di un popolo, e pare più più preoccupato per il gas e il petrolio, per i lucrosi affari di Stato e per il crollo del muro anti-immigrati fatto di omicidi, vessazioni e torture, che Gheddafi aveva costruito con i nostri soldi e le nostre armi...
In tutto questo fa certamente bene leggere sul Sole 24 Ore di oggi l'articolo "Tre scimmiette nel deserto" di Christian Rocca che sottolinea il pilatismo complice del nostro governo e conclude: «L'idea del ministro Franco Frattini, secondo cui non è compito dell'Europa interferire negli affari interni della Libia, non è solo miope, sbagliata e fondata sull'illusione che il regime alla fine si salverà. È anche diametralmente opposta a un'ormai consolidata politica estera italiana, condivisa dai governi di centro-sinistra (Somalia, Serbia, Albania, Libano) e di centro-destra (Iraq e Afghanistan) e incentrata sul diritto all'ingerenza democratica e sul dovere d'intervenire per fermare i massacri a pochi chilometri di distanza da casa nostra», Ma fa male leggere sullo stesso giornale il furbesco cerchiobottismo del breve articolo non firmato (e quindi attribuibile alla direzione) intitolato "Non commuove il dolore della Libia" che, come per un ormai collaudato riflesso condizionato, se la prende con i pacifisti italiani: «Stupisce che questa mattanza stia passando nel silenzio assordante di associazioni, organismi, enti sempre impegnati in prima fila quando bisogna, meritoriamente, difendere i diritti dei popoli oppressi in tutto il mondo. Fino ad oggi non abbiamo avuto notizia di condanne, né alte né basse, da parte di nessuno. Niente manifestazioni, nessuna bandiera della pace esposta, nessun corteo pacifista. Niente strali perché nessuno tocchi Caino. Eppure, al contrario, i manifestanti libici stanno cercando di liberarsi del Colonnello Gheddafi, uno dei dittatori più sanguinari dell'ultimo secolo. Sarà la stanchezza, sarà la rassegnazione, ma per i morti in Libia s'ode un silenzio assordante».
Più che assordato il giornale della Confindustria sembra sordo e cieco, perché le voci delle associazioni pacifiste e per i diritti umani si erano levate (e si levano) da anni in tutto il mondo, purtroppo inascoltate dagli imprenditori "pragmatici" che con il regime genocida Libico facevano (e fanno) affari d'oro. Non avevano visto gli industriali italiani, fin dal tempo di Gheddafi nella Fiat e nella Juventus, cosa succedeva nella nostra ex colonia? Non avevano capito quale era il prezzo dei loro affari quando seguivano in codazzi festanti il nostro capo del governo nelle tende beduine del dittatore? Non avevano capito quanto sangue, dolore, ingiustizia e sopraffazione c'era dietro l'accordo Libia-Italia che hanno calorosamente applaudito e che, in cambio della repressione dei migranti e dei danni di guerra per il colonialismo fascista, dava all'Italia ed alle industrie parastatali e private, appalti miliardari per costruire autostrade di regime e per trivellare altro gas e petrolio? Cosa pensavano gli industriali italiani quando, scortati da Berlusconi e dai suoi ministri, stringeva sorridente la mano di Gheddafi in occasione delle sue visite romane con tende, cavalli e hostess al seguito che ci hanno resi ridicoli (ancora una volta di più) davanti al mondo? Qualcuno si ricorda un qualche adirato commento confindustriale in occasione del baciamano di Berlusconi a Gheddafi in Libia che sta facendo il giro del web come dimostrazione dell'assoluta complicità del nostro governo con l'aguzzino di Tripoli?
Probabilmente tra le tre scimmiette del deserto Confindustria è la più grossa e la più cieca, sorda e muta nello stesso tempo... altro che prendersela con i pacifisti che posizione contro Gheddafi e il suo vergognoso regime l'hanno presa.
Non è un caso se i primi a scappare dalla Libia in fiamme siano stati gli italiani e i cinesi, ma con una differenza: noi siamo ancora una democrazia, la Cina è una dittatura che fa affari indifferentemente con tutte le dittature senza chiedere in cambio certo il rispetto dei diritti umani o la libertà di stampa, di riunione e di voto. Anzi in quel che succede nel mondo arabo e nelle sue rivoluzioni c'è anche un'altra differenza tutta italiota, che un forse malinteso amor di patria (o speriamo una tardiva vergogna) hanno fatto sparire dalle pagine di quasi tutti i nostri giornali: il nostro Paese, l'Italia, è il primo partner commerciale della Libia, ma era anche il primo partner commerciale della dittatura tunisina di Ben Ali (circa 500 aziende italiane nel più piccolo Paese del Nord Africa) e il secondo partner commerciale della dittatura egiziana di Hosni Mubarak. Non lo sapevano Confindustria e il Sole 24 Ore che l'Italia e la sua imprenditoria globalizzata stavano collaborando, arricchendo e sostenendo alcuni «Dei dittatori più sanguinari dell'ultimo secolo»?
Il Sole 24 Ore riesce a vedere qualche sostanziale differenza etica e di approccio politico tra questi due comunicati di Federpetroli e Legambiente? Fra un'associazione di imprenditori ed una dichiaratamente pacifista?
Dice il presidente FederPetroli Italia, Michele Marsiglia, che sta monitorando ora per ora la situazione libica: «Secondo le fonti a noi pervenute e la situazione che in meno di 24 ore è evoluta, in Libia sono iniziate azioni di bombardamento su diverse città, a questo punto il rischio è evidente per il fattore umano in primis e, per tutte le infrastrutture presenti in Libia. Come nella Guerra del Golfo, se la posizione del Rais libico sarà ormai senza via di uscita, non ci sarà scelta su chi e dove bombardare, il danno alle infrastrutture energetiche sarebbe incalcolabile per milioni di euro, la preoccupazione non sarà più quella della fonte di approvvigionamento».
Dice Rossella Muroni, direttore generale di Legambiente: «La comunità internazionale non può rimanere in silenzio di fronte a un tale genocidio. Imbarazzante il comportamento dell'Italia. Si aprano le frontiere e si predisponga invece, un idoneo e immediato intervento. Mentre si consuma un eccidio senza precedenti in Libia, l'unica preoccupazione dell'Italia è quella che non si rompa la "diga anticlandestini", creata con il trattato Italia-Libia. Siamo imbarazzati dai rapporti e dalle convenzioni stabilite dal nostro Paese con il colonnello Gheddafi sulla "prevenzione clandestina", dietro cui si nascondono continue violazioni dei diritti umani. E' necessario che il nostro Paese accolga l'appello dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati e apra le frontiere nazionali e ci si schieri concretamente a favore di un intervento immediato della Comunità internazionale per fermare al più presto questo genocidio».
E' evidente chi pensa al petrolio e chi al popolo libico, e non da ora. Forse quella del Sole è una voluta cantonata, un espediente polemico per evitare un'autocritica che sarebbe necessaria, perché con i morti per le strade e gli imprenditori italiani che scappano da Tripoli la miglior difesa non è certo l'attacco al presunto disinteresse dei pacifisti che hanno sempre gridato nel deserto muto e sordo della politica e dell'imprenditoria italiana, mentre nelle tende beduine di Gheddafi le tre scimmiette si tappavano occhi, orecchi e bocche e facevano la fila festose per firmare accordi petroliferi e per vendere le armi che oggi vengono usate per uccidere chi chiede libertà e pace.
Fonte www.greenreport.it
Petrolio: Brent e Wti volano oltre 100 dollari/barile
Alle 11.36 del 24 febbraio 2011 il prezzo del petrolio Brent e' 113,92 $/b mentre il WTI ha superato la soglia di 100 $/b. Il prezzo del petrolio Brent e' il prezzo delle contrattazioni sul mercato europeo e solitamente e' leggermente inferiore al prezzo del WTI o comunque le differenze tra i due prezzi non sono mai di queste dimensioni. Questo fenomeno dell' aumento del Brent dura almeno da 5 settimane ed ora in coincidenza con la crisi libica il prezzo ha toccato i suoi massimi dal settembre 2008.
La coincidenza tra aumento, anomalo o inaspettato del Brent, e sommovimenti nel NordAfrica arabo puo' portare ad un aggravamento in tempi rapidi della crisi economica. Con pazienza e costanza dobbiamo pero' ricordare che il problema dei limiti della produzione di greggio e del prossimo declino della stessa porta inevitabilmente all' aumento dei prezzi delle fonti fossili che avverra' con accelerazioni improvvise e arretramenti dell' economie mondiali.
La coincidenza tra aumento, anomalo o inaspettato del Brent, e sommovimenti nel NordAfrica arabo puo' portare ad un aggravamento in tempi rapidi della crisi economica. Con pazienza e costanza dobbiamo pero' ricordare che il problema dei limiti della produzione di greggio e del prossimo declino della stessa porta inevitabilmente all' aumento dei prezzi delle fonti fossili che avverra' con accelerazioni improvvise e arretramenti dell' economie mondiali.
mercoledì 23 febbraio 2011
Nonviolenza e solidarieta' ai popoli arabi in rivolta
PEPPE SINI: COI POPOLI IN LOTTA CONTRO I POTERI ASSASSINI. PER LA SCELTA DELLA NONVIOLENZA
Le grandi sollevazioni popolari che stanno provocando la caduta di regimi dispotici in alcuni paesi africani suscitano profonde memorie, sincere trepidazioni ed intense speranze. E convocano ad una solidarieta' attiva e concreta con le popolazioni che a mani nude affrontano regimi assassini per chiedere pane e giustizia, come Renzo Tramaglino a Milano.
E' ovvio che nessuno puo' prevedere gli esiti di queste lotte: per quelli di noi non piu' giovani il ricordo va immediatamente alla rivoluzione algerina, alla Primavera e all'autunno di Praga, alla strage in piazza delle Tre culture a Citta' del Messico come molti anni dopo in piazza Tien An Men a Pechino, alla caduta dello Scia', al 1989, alla guerra di secessione jugoslava. E sappiamo quindi che nulla e' univoco, nulla e' certo, nulla e' scontato. Puo' vincere la repressione piu' brutale. Ed anche dove la lotta popolare abbatte longeve dittature possono vincere con abile trasformismo le medesime nomeklature corrotte e sanguinarie, ovvero le mafie, il militarismo, o nuovi regimi altrettanto o addirittura vieppiu' corrotti e criminali, sostenuti da fanatismi in se stessi totalitari, o proni a poteri ideologici ed economici che non esitano neppure dinanzi al genocidio. Nulla e' univoco, nulla e' certo, nulla e' scontato. Ma gia' aver vinto la paura e la rassegnazione, gia' l'affrontare a mani nude e a viso aperto regimi armati sino ai denti, gia' questo e' un levarsi dell'umanita' di contro all'inumano.
E pur senza ingenuita' ed illusioni, pur con tutta l'attenzione al contesto e alle dinamiche, alle forze in campo ed ai condizionamenti esterni, e fermo restando il bisogno e il dovere di un'analisi concreta della situazione concreta, tuttavia commuove e persuade questo rimettersi in marcia dei popoli, questo collettivo scendere per le strade a sfidare il potere che opprime, questo mobilitarsi di popoli interi che dai tempi della decolonizzazione non si vedeva svilupparsi in forme cosi' massive, cosi' partecipate, cosi' condivise.
E questa lotta a mani nude per il pane e la giustizia, per la dignita' e i diritti di tutte e tutti, e' gia' in nuce la nonviolenza in cammino.
Che possa sconfiggere le tendenze naziste che agiscono nel mondo attuale.
Ed allora sara' anche decisivo il contributo nostro, ovvero cio' che faremo noi che ci troviamo nel versante nord del Mediterraneo.
E quello che dobbiamo fare e' semplice e chiaro.
Primo: recare aiuto al movimento di massa che disarmato si oppone ai poteri corrotti e criminali ed alla loro violenza armata. E questo aiuto sia rigorosamente nonviolento ed esplicitamente a sostegno dei movimenti esplicitamente nonviolenti e per i diritti umani di tutti gli esseri umani, e quindi primariamente e decisivamente ai movimenti delle donne.
Secondo: accogliere ed assistere tutti i profughi, tutti i fuggiaschi, tutti i migranti, tutti: nessun essere umano deve essere abbandonato alla persecuzione, alla schiavitu' e alla morte.
Terzo: contrastare e sconfiggere il regime della corruzione qui, con la forza della verita', della legalita' e della democrazia, con la scelta della nonviolenza.
Quarto: far cessare la partecipazione italiana alla guerra, imporre una politica di smilitarizzazione dei conflitti, di disarmo, di pace con mezzi di pace, nella piu' rigorosa fedelta' al dettato dei principi fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana.
Quinto: cacciare il governo criminale e criminogeno che nel nostro paese ha compiuto un colpo di stato razzista, ed abrogare tutte le misure in cui il colpo di stato razzista si e' concretizzato.
Sesto: contrastare e sconfiggere maschilismo e patrarcato. Senza questa lotta non e' possibile affermare la dignita' e i diritti umani di tutti gli esseri umani. E' questo il cuore della lotta politica nell'attuale momento storico: o si contrasta e si sconfigge il maschilismo e il patriarcato, o tutto e' perduto.
Settimo: riaprire quindi una prospettiva socialista e libertaria, femminista ed ecologista nella riflessione e nell'azione politica per la liberazione dell'umanita', per la civilta' contro la barbarie, per la legalita' che salva le vite, per la democrazia che invera i diritti. Ricominciando da Rosa Luxemburg e da Virginia Woolf, da Mohandas Gandhi e da Nelson Mandela, da Ivan Illich e da Murray Bookchin, da Piero Gobetti e da Antonio Gramsci, da Hannah Arendt e da Shirin Ebadi, da Victor Serge e da Guenther Anders, da Franco Basaglia e da Franca Ongaro Basaglia, da Simone Weil e da Simone de Beauvoir, da Luce Irigaray e da Wangari Maathai, da Paulo Freire e da Vandana Shiva.
Chiamiamo nonviolenza in cammino questa prospettiva politica concreta, che invera le promesse del moderno costituzionalismo, che si nutre delle tradizioni forti del movimento operaio e contadino, dell'anticolonialismo e dell'antirazzismo, del femminismo, dell'ecologia.
Ci attendono ardui doveri, difficili passaggi: sara' necessaria tutta l'intransigenza e tutta la misericordia di cui saremo capaci.
La nonviolenza e' in cammino.
Le grandi sollevazioni popolari che stanno provocando la caduta di regimi dispotici in alcuni paesi africani suscitano profonde memorie, sincere trepidazioni ed intense speranze. E convocano ad una solidarieta' attiva e concreta con le popolazioni che a mani nude affrontano regimi assassini per chiedere pane e giustizia, come Renzo Tramaglino a Milano.
E' ovvio che nessuno puo' prevedere gli esiti di queste lotte: per quelli di noi non piu' giovani il ricordo va immediatamente alla rivoluzione algerina, alla Primavera e all'autunno di Praga, alla strage in piazza delle Tre culture a Citta' del Messico come molti anni dopo in piazza Tien An Men a Pechino, alla caduta dello Scia', al 1989, alla guerra di secessione jugoslava. E sappiamo quindi che nulla e' univoco, nulla e' certo, nulla e' scontato. Puo' vincere la repressione piu' brutale. Ed anche dove la lotta popolare abbatte longeve dittature possono vincere con abile trasformismo le medesime nomeklature corrotte e sanguinarie, ovvero le mafie, il militarismo, o nuovi regimi altrettanto o addirittura vieppiu' corrotti e criminali, sostenuti da fanatismi in se stessi totalitari, o proni a poteri ideologici ed economici che non esitano neppure dinanzi al genocidio. Nulla e' univoco, nulla e' certo, nulla e' scontato. Ma gia' aver vinto la paura e la rassegnazione, gia' l'affrontare a mani nude e a viso aperto regimi armati sino ai denti, gia' questo e' un levarsi dell'umanita' di contro all'inumano.
E pur senza ingenuita' ed illusioni, pur con tutta l'attenzione al contesto e alle dinamiche, alle forze in campo ed ai condizionamenti esterni, e fermo restando il bisogno e il dovere di un'analisi concreta della situazione concreta, tuttavia commuove e persuade questo rimettersi in marcia dei popoli, questo collettivo scendere per le strade a sfidare il potere che opprime, questo mobilitarsi di popoli interi che dai tempi della decolonizzazione non si vedeva svilupparsi in forme cosi' massive, cosi' partecipate, cosi' condivise.
E questa lotta a mani nude per il pane e la giustizia, per la dignita' e i diritti di tutte e tutti, e' gia' in nuce la nonviolenza in cammino.
Che possa sconfiggere le tendenze naziste che agiscono nel mondo attuale.
Ed allora sara' anche decisivo il contributo nostro, ovvero cio' che faremo noi che ci troviamo nel versante nord del Mediterraneo.
E quello che dobbiamo fare e' semplice e chiaro.
Primo: recare aiuto al movimento di massa che disarmato si oppone ai poteri corrotti e criminali ed alla loro violenza armata. E questo aiuto sia rigorosamente nonviolento ed esplicitamente a sostegno dei movimenti esplicitamente nonviolenti e per i diritti umani di tutti gli esseri umani, e quindi primariamente e decisivamente ai movimenti delle donne.
Secondo: accogliere ed assistere tutti i profughi, tutti i fuggiaschi, tutti i migranti, tutti: nessun essere umano deve essere abbandonato alla persecuzione, alla schiavitu' e alla morte.
Terzo: contrastare e sconfiggere il regime della corruzione qui, con la forza della verita', della legalita' e della democrazia, con la scelta della nonviolenza.
Quarto: far cessare la partecipazione italiana alla guerra, imporre una politica di smilitarizzazione dei conflitti, di disarmo, di pace con mezzi di pace, nella piu' rigorosa fedelta' al dettato dei principi fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana.
Quinto: cacciare il governo criminale e criminogeno che nel nostro paese ha compiuto un colpo di stato razzista, ed abrogare tutte le misure in cui il colpo di stato razzista si e' concretizzato.
Sesto: contrastare e sconfiggere maschilismo e patrarcato. Senza questa lotta non e' possibile affermare la dignita' e i diritti umani di tutti gli esseri umani. E' questo il cuore della lotta politica nell'attuale momento storico: o si contrasta e si sconfigge il maschilismo e il patriarcato, o tutto e' perduto.
Settimo: riaprire quindi una prospettiva socialista e libertaria, femminista ed ecologista nella riflessione e nell'azione politica per la liberazione dell'umanita', per la civilta' contro la barbarie, per la legalita' che salva le vite, per la democrazia che invera i diritti. Ricominciando da Rosa Luxemburg e da Virginia Woolf, da Mohandas Gandhi e da Nelson Mandela, da Ivan Illich e da Murray Bookchin, da Piero Gobetti e da Antonio Gramsci, da Hannah Arendt e da Shirin Ebadi, da Victor Serge e da Guenther Anders, da Franco Basaglia e da Franca Ongaro Basaglia, da Simone Weil e da Simone de Beauvoir, da Luce Irigaray e da Wangari Maathai, da Paulo Freire e da Vandana Shiva.
Chiamiamo nonviolenza in cammino questa prospettiva politica concreta, che invera le promesse del moderno costituzionalismo, che si nutre delle tradizioni forti del movimento operaio e contadino, dell'anticolonialismo e dell'antirazzismo, del femminismo, dell'ecologia.
Ci attendono ardui doveri, difficili passaggi: sara' necessaria tutta l'intransigenza e tutta la misericordia di cui saremo capaci.
La nonviolenza e' in cammino.
lunedì 21 febbraio 2011
Dalla Libia il 38% del petrolio consumato in Italia
Adesso parliamo due minutini della Libia. La prima volta che accadde, su Petrolio, fu in questo post che diceva semplicemente:
L'Italia è il primo partner commerciale della Libia.
Attraverso il gasdotto Greenstream, il più lungo del Mediterraneo (520 km. da Mellitah a Gela), inaugurato da Berlusconi e Gheddafi il 7 ottobre 2004, arrivano dalla Libia in Italia circa 8 miliardi di metri cubi di gas l'anno.
Il gasdotto fornisce un decimo del nostro fabbisogno nazionale di gas.
Il gas viene estratto dai giacimenti di Wafa, nel deserto del sud, in compartecipazione al 50% tra l'ENI (presente nel Paese dal 1959) e la compagnia libica NOC.
La Libia fornisce il 38% del fabbisogno nazionale italiano di petrolio. E ho detto tutto.
Dice tutto anche oggi, pare a me.
La situazione libica è per noi molto più oscura rispetto all'Egitto. Anzitutto, la diffusione di Internet è talmente limitata da impedire l'uscita di informazioni dirette ed in tempo reale come accadeva al Cairo. Poi, la presenza stessa di Al Jazeera e di altre televisioni è al momento piuttosto ristretta. Infine la repressione in atto, assai più drammatica rispetto a quella soft attuata dal pur vituperato Mubarak, rende tutto più difficile. La sensazione è anche quella che i Paesi occidentali stiano ancora cercando di capire cosa diamine avviene: è una rivolta eterodiretta da qualcuno, per scalzare infine l'arcinemico Gheddafi approfittando dell'epidemia rivoluzionaria che colpisce il nordafrica? Oppure è una rivolta spontanea, ma che si configura comunque come un'occasione da non perdere per riprendersi il Paese e soprattutto i suoi ricchi giacimenti, e il solito qualcuno sta frettolosamente pianificando il dopo-Gheddafi? Sicuramente non è da escludere.
Occorre anche fare i conti con un elemento importante di questa anomala rivolta, ovvero le divisioni etniche in seno alla Jamahiria. Cirenaica, Fezzan, Tripolitania sono regioni diverse unite dalle insensatezze del colonialismo, che stanno cogliendo l'occasione per rinfocolare vecchie ruggini.
Insomma, fare valutazioni sulla situazione interna libica è alquanto arduo. Possiamo quindi per il momento riporre le bandiere rosse, il sol dell'avvenir, e il buonismo dilagante sui media per soffermarci sui fatti nostri.
Come sottolineato all'inizio, la Libia non è un Paese povero e privo di risorse, e soprattutto contribuisce a tenerci al caldo, a fornirci energia elettrica e a far camminare le nostre automobili. Se dovesse restare in una condizione di tumulto permanente potremmo averne pesanti conseguenze. Se invece Gheddafi dovesse cadere, chiunque lo sostituirà come prima cosa metterà le mani sui giacimenti e rivedrà tutti gli accordi in essere. Posto che si tratterà di un anti-Gheddafi, sia se espressione della volontà popolare rivoluzionaria che in alternativa come espressione dell'occidente, il risultato è che saranno cavoli amarissimi: il nostro governo è pappa e ciccia con Gheddafi da sempre, non saremo certo i primi della lista a godere delle nuove concessioni. C'è una fila lunga chilometri che attende da anni, e che noi abbiamo spernacchiato per troppo tempo. Non resta che confidare nella diplomazia ENI che dovrà fare i salti mortali.
In alternativa, toccherà andare a spezzare le reni alla Libia. Pronti a partire?
Fonte il Blog Petrolio di Debora Billi
L'Italia è il primo partner commerciale della Libia.
Attraverso il gasdotto Greenstream, il più lungo del Mediterraneo (520 km. da Mellitah a Gela), inaugurato da Berlusconi e Gheddafi il 7 ottobre 2004, arrivano dalla Libia in Italia circa 8 miliardi di metri cubi di gas l'anno.
Il gasdotto fornisce un decimo del nostro fabbisogno nazionale di gas.
Il gas viene estratto dai giacimenti di Wafa, nel deserto del sud, in compartecipazione al 50% tra l'ENI (presente nel Paese dal 1959) e la compagnia libica NOC.
La Libia fornisce il 38% del fabbisogno nazionale italiano di petrolio. E ho detto tutto.
Dice tutto anche oggi, pare a me.
La situazione libica è per noi molto più oscura rispetto all'Egitto. Anzitutto, la diffusione di Internet è talmente limitata da impedire l'uscita di informazioni dirette ed in tempo reale come accadeva al Cairo. Poi, la presenza stessa di Al Jazeera e di altre televisioni è al momento piuttosto ristretta. Infine la repressione in atto, assai più drammatica rispetto a quella soft attuata dal pur vituperato Mubarak, rende tutto più difficile. La sensazione è anche quella che i Paesi occidentali stiano ancora cercando di capire cosa diamine avviene: è una rivolta eterodiretta da qualcuno, per scalzare infine l'arcinemico Gheddafi approfittando dell'epidemia rivoluzionaria che colpisce il nordafrica? Oppure è una rivolta spontanea, ma che si configura comunque come un'occasione da non perdere per riprendersi il Paese e soprattutto i suoi ricchi giacimenti, e il solito qualcuno sta frettolosamente pianificando il dopo-Gheddafi? Sicuramente non è da escludere.
Occorre anche fare i conti con un elemento importante di questa anomala rivolta, ovvero le divisioni etniche in seno alla Jamahiria. Cirenaica, Fezzan, Tripolitania sono regioni diverse unite dalle insensatezze del colonialismo, che stanno cogliendo l'occasione per rinfocolare vecchie ruggini.
Insomma, fare valutazioni sulla situazione interna libica è alquanto arduo. Possiamo quindi per il momento riporre le bandiere rosse, il sol dell'avvenir, e il buonismo dilagante sui media per soffermarci sui fatti nostri.
Come sottolineato all'inizio, la Libia non è un Paese povero e privo di risorse, e soprattutto contribuisce a tenerci al caldo, a fornirci energia elettrica e a far camminare le nostre automobili. Se dovesse restare in una condizione di tumulto permanente potremmo averne pesanti conseguenze. Se invece Gheddafi dovesse cadere, chiunque lo sostituirà come prima cosa metterà le mani sui giacimenti e rivedrà tutti gli accordi in essere. Posto che si tratterà di un anti-Gheddafi, sia se espressione della volontà popolare rivoluzionaria che in alternativa come espressione dell'occidente, il risultato è che saranno cavoli amarissimi: il nostro governo è pappa e ciccia con Gheddafi da sempre, non saremo certo i primi della lista a godere delle nuove concessioni. C'è una fila lunga chilometri che attende da anni, e che noi abbiamo spernacchiato per troppo tempo. Non resta che confidare nella diplomazia ENI che dovrà fare i salti mortali.
In alternativa, toccherà andare a spezzare le reni alla Libia. Pronti a partire?
Fonte il Blog Petrolio di Debora Billi
Gheddafi son warns of civil war turmoil spreads
Libya’s Muammar Gaddafi will fight a popular revolt to “the last man standing”, one of his sons said on Monday, after protests broke out in the capital for the first time following days of unrest in the city of Benghazi.
Anti-government protesters rallied in Tripoli’s streets, tribal leaders spoke out against Gaddafi, and army units defected to the opposition as oil exporter Libya endured one of the bloodiest revolts to convulse the Arab world.
Gaddafi’s son Saif al-Islam Gaddafi appeared on national television in an attempt both to threaten and calm people, saying the army would enforce security at any price.
“Our spirits are high and the leader Muammar Gaddafi is leading the battle in Tripoli, and we are behind him as is the Libyan army,” he said.
“We will keep fighting until the last man standing, even to the last woman standing … We will not leave Libya to the Italians or the Turks.”
Wagging a finger at the camera, he blamed Libyan exiles for fomenting the violence. But he also promised dialogue on reforms and wage rises.
The cajoling may not be enough to douse the anger unleashed after four decades of rule by Gaddafi — mirroring events in Egypt where a popular revolt overthrew the seemingly impregnable President Hosni Mubarak 10 days ago.
“People here in Benghazi are laughing at what he is saying, it is the same old story (on promised reform) and nobody believes what he says,” a lawyer in Benghazi told the BBC after watching the speech.
“He is liar, liar, 42 years we have heard these lies.”
The United States said it was weighing “all appropriate actions” in response to the unrest.
“We are analysing the speech … to see what possibilities it contains for meaningful reform,” a U.S. official said.
Libya’s ambassador to India told the BBC he was resigning in protest at the violent crackdown that has killed more than 200. Ali al-Essawi also accused the government of deploying foreign mercenaries against the protesters.
In the coastal city of Benghazi, protesters appeared to be largely in control after forcing troops and police to retreat to a compound. Government buildings were set ablaze and ransacked.
“Security now it is by the people” the lawyer said.
In the first sign of serious unrest in the capital, thousands of protesters clashed with Gaddafi supporters. Gunfire rang out in the night and police used tear gas to disperse demonstrators, some of whom threw stones at Gaddafi billboards.
South Korea said hundreds of Libyans, some armed with knives and guns, attacked a South Korean-run construction site in Tripoli, injuring at least 4 foreign workers.
Human Rights Watch said at least 223 people have been killed in five days of violence. Most were in Benghazi, cradle of the uprising and a region where Gaddafi’s grip has always been weaker than elsewhere in the oil-rich desert nation.
Habib al-Obaidi, a surgeon at the Al-Jalae hospital, said the bodies of 50 people, most of them shot, were brought there on Sunday afternoon. Two hundred wounded had arrived, he said.
“One of the victims was obliterated after being hit by an RPG (rocket-propelled grenade) to the abdomen,” he said.
Members of an army unit known as the “Thunderbolt” squad had brought wounded comrades to the hospital, he said. The soldiers said they had defected to the cause of the protesters and had fought and defeated Gaddafi’s elite guards.
“They are now saying that they have overpowered the Praetorian Guard and that they have joined the people’s revolt,” another man at the hospital, lawyer Mohamed al-Mana, told Reuters by telephone.
BENGHAZI THE CRADLE
If Gaddafi had hoped to dismiss Benghazi as a provincial problem, he faced an alarming development on Sunday night as crowds took to the streets of Tripoli.
One resident told Reuters he could hear gunshots and crowds.
“We’re inside the house and the lights are out. That’s what I hear, gunshots and people. I can’t go outside,” he said.
An expatriate worker said anti-government demonstrators were gathering in residential complexes.
“The police are dispersing them. I can also see burning cars,” he said.
Support for Gaddafi, the son of a herdsman who seized power in 1969, among Libya’s desert tribes was also waning.
The leader of the eastern Al-Zuwayya tribe threatened to cut oil exports unless authorities halted what he called the “oppression of protesters”.
Speaking to Al Jazeera television, Shaikh Faraj al Zuway said: “We will stop oil exports to Western countries within 24 hours” if the violence did not stop.
Libya is Africa’s fourth biggest oil exporter. It produces 1.6 million barrels of oil a day of which 1.1 million barrels are exported, according to Libyan data.
Oil jumped by more than $1 a barrel to $103.5 a barrel on fears the unrest could disrupt supplies.
Akram Al-Warfalli, a leading figure in the Al Warfalla tribe, one of Libya’s biggest, told Al Jazeera: “We tell the brother (Gaddafi), well he’s no longer a brother, we tell him to leave the country.”
The Libyan uprising is one of series of revolts that have raced like wildfire across the Arab world since December, toppling the long-time rulers of Tunisia and Egypt and threatening entrenched dynasties from Bahrain to Yemen.
The West has watched with alarm as long-time allies and old foes have come under threat, appealing for reform and urging restraint.
REVILED AND REVERED
Gaddafi has been one of the most recognisable figures on the world stage in recent history, reviled by the West for many years as a supporter of militants and revolutionary movements while at the same time cutting a showmanlike figure with his flowing robes, lofty pronouncements and bevy of glamorous female assistants attending him in his Bedouin tent.
Former U.S. President Ronald Reagan once called him “the Mad Dog of the Middle East” and in 1986 unleashed air raids against Tripoli in response to the bombing of a Berlin disco frequented by U.S. servicemen, an attack the United States blamed on Libya.
The 1988 destruction of a Pan Am airliner over Lockerbie, Scotland, by Libyan agents in which 270 people were killed brought him fresh notoriety and led to U.N. sanctions.
But recent years have seen a rapprochement with the West as countries such as Britain and Italy sought a slice of its oil wealth and other lucrative commercial deals.
Though portrayed overseas as a ruthless despot, Gaddafi has enjoyed some popular support at home. After toppling King Idriss in 1969, he forged a middle road between communism and capitalism and oversaw rapid development of the poor country.
While using ruthless tactics against dissidents, he also spent billions of oil dollars to improve living standards.
Reuters.
Fonte www.africa-time-news.com
Anti-government protesters rallied in Tripoli’s streets, tribal leaders spoke out against Gaddafi, and army units defected to the opposition as oil exporter Libya endured one of the bloodiest revolts to convulse the Arab world.
Gaddafi’s son Saif al-Islam Gaddafi appeared on national television in an attempt both to threaten and calm people, saying the army would enforce security at any price.
“Our spirits are high and the leader Muammar Gaddafi is leading the battle in Tripoli, and we are behind him as is the Libyan army,” he said.
“We will keep fighting until the last man standing, even to the last woman standing … We will not leave Libya to the Italians or the Turks.”
Wagging a finger at the camera, he blamed Libyan exiles for fomenting the violence. But he also promised dialogue on reforms and wage rises.
The cajoling may not be enough to douse the anger unleashed after four decades of rule by Gaddafi — mirroring events in Egypt where a popular revolt overthrew the seemingly impregnable President Hosni Mubarak 10 days ago.
“People here in Benghazi are laughing at what he is saying, it is the same old story (on promised reform) and nobody believes what he says,” a lawyer in Benghazi told the BBC after watching the speech.
“He is liar, liar, 42 years we have heard these lies.”
The United States said it was weighing “all appropriate actions” in response to the unrest.
“We are analysing the speech … to see what possibilities it contains for meaningful reform,” a U.S. official said.
Libya’s ambassador to India told the BBC he was resigning in protest at the violent crackdown that has killed more than 200. Ali al-Essawi also accused the government of deploying foreign mercenaries against the protesters.
In the coastal city of Benghazi, protesters appeared to be largely in control after forcing troops and police to retreat to a compound. Government buildings were set ablaze and ransacked.
“Security now it is by the people” the lawyer said.
In the first sign of serious unrest in the capital, thousands of protesters clashed with Gaddafi supporters. Gunfire rang out in the night and police used tear gas to disperse demonstrators, some of whom threw stones at Gaddafi billboards.
South Korea said hundreds of Libyans, some armed with knives and guns, attacked a South Korean-run construction site in Tripoli, injuring at least 4 foreign workers.
Human Rights Watch said at least 223 people have been killed in five days of violence. Most were in Benghazi, cradle of the uprising and a region where Gaddafi’s grip has always been weaker than elsewhere in the oil-rich desert nation.
Habib al-Obaidi, a surgeon at the Al-Jalae hospital, said the bodies of 50 people, most of them shot, were brought there on Sunday afternoon. Two hundred wounded had arrived, he said.
“One of the victims was obliterated after being hit by an RPG (rocket-propelled grenade) to the abdomen,” he said.
Members of an army unit known as the “Thunderbolt” squad had brought wounded comrades to the hospital, he said. The soldiers said they had defected to the cause of the protesters and had fought and defeated Gaddafi’s elite guards.
“They are now saying that they have overpowered the Praetorian Guard and that they have joined the people’s revolt,” another man at the hospital, lawyer Mohamed al-Mana, told Reuters by telephone.
BENGHAZI THE CRADLE
If Gaddafi had hoped to dismiss Benghazi as a provincial problem, he faced an alarming development on Sunday night as crowds took to the streets of Tripoli.
One resident told Reuters he could hear gunshots and crowds.
“We’re inside the house and the lights are out. That’s what I hear, gunshots and people. I can’t go outside,” he said.
An expatriate worker said anti-government demonstrators were gathering in residential complexes.
“The police are dispersing them. I can also see burning cars,” he said.
Support for Gaddafi, the son of a herdsman who seized power in 1969, among Libya’s desert tribes was also waning.
The leader of the eastern Al-Zuwayya tribe threatened to cut oil exports unless authorities halted what he called the “oppression of protesters”.
Speaking to Al Jazeera television, Shaikh Faraj al Zuway said: “We will stop oil exports to Western countries within 24 hours” if the violence did not stop.
Libya is Africa’s fourth biggest oil exporter. It produces 1.6 million barrels of oil a day of which 1.1 million barrels are exported, according to Libyan data.
Oil jumped by more than $1 a barrel to $103.5 a barrel on fears the unrest could disrupt supplies.
Akram Al-Warfalli, a leading figure in the Al Warfalla tribe, one of Libya’s biggest, told Al Jazeera: “We tell the brother (Gaddafi), well he’s no longer a brother, we tell him to leave the country.”
The Libyan uprising is one of series of revolts that have raced like wildfire across the Arab world since December, toppling the long-time rulers of Tunisia and Egypt and threatening entrenched dynasties from Bahrain to Yemen.
The West has watched with alarm as long-time allies and old foes have come under threat, appealing for reform and urging restraint.
REVILED AND REVERED
Gaddafi has been one of the most recognisable figures on the world stage in recent history, reviled by the West for many years as a supporter of militants and revolutionary movements while at the same time cutting a showmanlike figure with his flowing robes, lofty pronouncements and bevy of glamorous female assistants attending him in his Bedouin tent.
Former U.S. President Ronald Reagan once called him “the Mad Dog of the Middle East” and in 1986 unleashed air raids against Tripoli in response to the bombing of a Berlin disco frequented by U.S. servicemen, an attack the United States blamed on Libya.
The 1988 destruction of a Pan Am airliner over Lockerbie, Scotland, by Libyan agents in which 270 people were killed brought him fresh notoriety and led to U.N. sanctions.
But recent years have seen a rapprochement with the West as countries such as Britain and Italy sought a slice of its oil wealth and other lucrative commercial deals.
Though portrayed overseas as a ruthless despot, Gaddafi has enjoyed some popular support at home. After toppling King Idriss in 1969, he forged a middle road between communism and capitalism and oversaw rapid development of the poor country.
While using ruthless tactics against dissidents, he also spent billions of oil dollars to improve living standards.
Reuters.
Fonte www.africa-time-news.com
domenica 20 febbraio 2011
Pechino, prove (soffocate) di rivolta "tunisina"
Pechino, protesta tra web e gelsomini
Soffocate le prove di rivolta "tunisina"
Ispirati dalle ribellioni in Africa e Medio Oriente, nella capitale e altre città alcuni attivisti hanno lanciato i simbolici fiori come forma di protesta. Rapido l'intervento della polizia, sul territorio e con blocco di cellulari e web. Centinaia di arresti
PECHINO - Le rivolte in Nordafrica e Medio Oriente ispirano i giovani cinesi che provano a scendere in piazza contro il regime. E delle manifestazioni tunisine, i cinesi prendono in prestito i simboli, in questo caso il gelsomino. La tensione è arrivata fino a Wangfujing, la via dello shopping di Pechino a poca distanza da Piazza Tienanmen, con un assembramento e lancio di gelsomini. Un atto che segue un messaggio apparso sul web, che invitava alla protesta.
A Pechino i fiori di Tunisi. La dimostrazione è iniziata con una piccola folla composta inizialmente soprattutto da curiosi, giornalisti e forze dell'ordine in borghese. Ma tra la ressa era evidentemente presente un drappello di manifestanti organizzati, che hanno approfittato del momento migliore per lanciare alcuni mazzi di gelsomini bianchi dalla scalinata di un centro commerciale, sotto i flash e le telecamere dei media. Un comportamento che ha fatto scattare l'intervento di un massiccio spiegamento delle forze di polizia.
La reazione degli agenti è stata composta, immediata e decisa: i poliziotti già presenti sul posto sono stati raggiunti da diverse dozzine di colleghi, che hanno spinto la folla verso la strada tentando di disperderla, mentre altri agenti facevano sparire velocemente i fiori gettandoli nell'immondizia. La risposta delle forze dell'ordine è stata anche mediatica: per una decina di minuti le telecomunicazioni della zona sono state completamente oscurate, rendendo inutilizzabili i telefoni cellulari.
Dopo pochi minuti la tensione è salita ancora, e in due occasioni si è sfiorato lo scontro fisico. Alcuni poliziotti hanno bruscamente fronteggiato un cameraman straniero, mentre altri hanno allontanato un ragazzo cinese che aveva raccolto i gelsomini dai cestini della spazzatura. Bloccato da due uomini in borghese, il giovane è stato rilasciato subito dopo. I manifestanti arrestati sarebbero solamente due - un uomo che ha imprecato contro la polizia e un altro che urlava "Ho fame". La polizia era giunta alla manifestazione già preparata, dopo avere scatenato una vasta azione preventiva tanto sul campo che su internet. La parola "gelsomino" risulta bloccata in tutta la Cina sulle piattaforme di microblog, così come i richiami alle proteste in Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e Bahrein.
Organizzati sul web. Il messaggio che incitava alla "protesta dei gelsomini" era apparso per la prima volta sul sito americano in lingua cinese Boxun.com, ed è stato successivamente diffuso sul web del Celeste Impero, provocando tra ieri e oggi più di un centinaio di arresti di dissidenti e attivisti. E' il caso dell'avvocato dei diritti umani Jiang Tianrong, condotto via dalla sua casa di Pechino dalle forze dell'ordine, e di alcuni dei suoi colleghi come Teng Biao, Xu Zhiyong e Jiang Tianyong, che risultano irraggiungibili. Ma nessuno dei dissidenti più noti ha esplicitamente firmato l'appello che invitava "tutti i lavoratori licenziati e le vittime di espulsioni forzate" a manifestare anche a Shanghai, Canton e in altre 10 metropoli scandendo slogan come "Vogliamo lavoro", "Lunga vita alla democrazia" e "Vogliamo la libertà". Al momento sembra che l'iniziativa abbia richiamato solo pochi manifestanti nelle altre città e l'esito nella capitale sembra abbastanza modesto rispetto alle aspettative degli anonimi che hanno diffuso il manifesto.
L'inflazione e il rischio Nordafrica. Pechino tuttavia teme l'ondata di manifestazioni che stanno incendiando il Medio Oriente, e il governo appare deciso a evitare il contagio a tutti i costi: ieri il presidente Hu Jintao ha convocato alla Scuola Centrale del Partito Comunista Cinese tutti i leader provinciali e ministeriali per un discorso straordinario nel quale ha invitato i funzionari governativi a "mantenere la stabilità sociale e aumentare i controlli". Ma anche a "studiare i cambiamenti nella situazione nazionale e internazionale e migliorare i meccanismi per risolvere i conflitti sociali".
Nonostante i brillanti risultati economici conseguiti negli ultimi anni, Pechino si trova oggi a fronteggiare un'inflazione galoppante, che sta causando continui rincari di generi alimentari, benzina e gasolio.
L'anti Obama tra i presenti. Tra gli stranieri presenti al momento della protesta c'era anche Jon Huntsman Jr., l'ambasciatore Usa uscente che molti osservatori danno come prossimo sfidante di Barack Obama alle elezioni presidenziali del 2012. Pur avendo assunto nelle ultime settimane posizioni molto critiche sulla situazione dei diritti umani in Cina, Huntsman, che ha una figlia adottiva di origine cinese, non ha rilasciato alcuna dichiarazione.
www.repubblica.it
Soffocate le prove di rivolta "tunisina"
Ispirati dalle ribellioni in Africa e Medio Oriente, nella capitale e altre città alcuni attivisti hanno lanciato i simbolici fiori come forma di protesta. Rapido l'intervento della polizia, sul territorio e con blocco di cellulari e web. Centinaia di arresti
PECHINO - Le rivolte in Nordafrica e Medio Oriente ispirano i giovani cinesi che provano a scendere in piazza contro il regime. E delle manifestazioni tunisine, i cinesi prendono in prestito i simboli, in questo caso il gelsomino. La tensione è arrivata fino a Wangfujing, la via dello shopping di Pechino a poca distanza da Piazza Tienanmen, con un assembramento e lancio di gelsomini. Un atto che segue un messaggio apparso sul web, che invitava alla protesta.
A Pechino i fiori di Tunisi. La dimostrazione è iniziata con una piccola folla composta inizialmente soprattutto da curiosi, giornalisti e forze dell'ordine in borghese. Ma tra la ressa era evidentemente presente un drappello di manifestanti organizzati, che hanno approfittato del momento migliore per lanciare alcuni mazzi di gelsomini bianchi dalla scalinata di un centro commerciale, sotto i flash e le telecamere dei media. Un comportamento che ha fatto scattare l'intervento di un massiccio spiegamento delle forze di polizia.
La reazione degli agenti è stata composta, immediata e decisa: i poliziotti già presenti sul posto sono stati raggiunti da diverse dozzine di colleghi, che hanno spinto la folla verso la strada tentando di disperderla, mentre altri agenti facevano sparire velocemente i fiori gettandoli nell'immondizia. La risposta delle forze dell'ordine è stata anche mediatica: per una decina di minuti le telecomunicazioni della zona sono state completamente oscurate, rendendo inutilizzabili i telefoni cellulari.
Dopo pochi minuti la tensione è salita ancora, e in due occasioni si è sfiorato lo scontro fisico. Alcuni poliziotti hanno bruscamente fronteggiato un cameraman straniero, mentre altri hanno allontanato un ragazzo cinese che aveva raccolto i gelsomini dai cestini della spazzatura. Bloccato da due uomini in borghese, il giovane è stato rilasciato subito dopo. I manifestanti arrestati sarebbero solamente due - un uomo che ha imprecato contro la polizia e un altro che urlava "Ho fame". La polizia era giunta alla manifestazione già preparata, dopo avere scatenato una vasta azione preventiva tanto sul campo che su internet. La parola "gelsomino" risulta bloccata in tutta la Cina sulle piattaforme di microblog, così come i richiami alle proteste in Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e Bahrein.
Organizzati sul web. Il messaggio che incitava alla "protesta dei gelsomini" era apparso per la prima volta sul sito americano in lingua cinese Boxun.com, ed è stato successivamente diffuso sul web del Celeste Impero, provocando tra ieri e oggi più di un centinaio di arresti di dissidenti e attivisti. E' il caso dell'avvocato dei diritti umani Jiang Tianrong, condotto via dalla sua casa di Pechino dalle forze dell'ordine, e di alcuni dei suoi colleghi come Teng Biao, Xu Zhiyong e Jiang Tianyong, che risultano irraggiungibili. Ma nessuno dei dissidenti più noti ha esplicitamente firmato l'appello che invitava "tutti i lavoratori licenziati e le vittime di espulsioni forzate" a manifestare anche a Shanghai, Canton e in altre 10 metropoli scandendo slogan come "Vogliamo lavoro", "Lunga vita alla democrazia" e "Vogliamo la libertà". Al momento sembra che l'iniziativa abbia richiamato solo pochi manifestanti nelle altre città e l'esito nella capitale sembra abbastanza modesto rispetto alle aspettative degli anonimi che hanno diffuso il manifesto.
L'inflazione e il rischio Nordafrica. Pechino tuttavia teme l'ondata di manifestazioni che stanno incendiando il Medio Oriente, e il governo appare deciso a evitare il contagio a tutti i costi: ieri il presidente Hu Jintao ha convocato alla Scuola Centrale del Partito Comunista Cinese tutti i leader provinciali e ministeriali per un discorso straordinario nel quale ha invitato i funzionari governativi a "mantenere la stabilità sociale e aumentare i controlli". Ma anche a "studiare i cambiamenti nella situazione nazionale e internazionale e migliorare i meccanismi per risolvere i conflitti sociali".
Nonostante i brillanti risultati economici conseguiti negli ultimi anni, Pechino si trova oggi a fronteggiare un'inflazione galoppante, che sta causando continui rincari di generi alimentari, benzina e gasolio.
L'anti Obama tra i presenti. Tra gli stranieri presenti al momento della protesta c'era anche Jon Huntsman Jr., l'ambasciatore Usa uscente che molti osservatori danno come prossimo sfidante di Barack Obama alle elezioni presidenziali del 2012. Pur avendo assunto nelle ultime settimane posizioni molto critiche sulla situazione dei diritti umani in Cina, Huntsman, che ha una figlia adottiva di origine cinese, non ha rilasciato alcuna dichiarazione.
www.repubblica.it
Maroc: appel à manifester pour un changement
Les Marocains sont appelés à manifester pacifiquement ce dimanche pour demander au roi Mohammed VI de transférer une partie de ses prérogatives à un gouvernement élu et d’accroître l’indépendance du système judiciaire. L’appel a été lancé par le «Mouvement jeunesse marocaine du 20 février pour un changement démocratique» notamment via le réseau social Facebook.
Les manifestations se multiplient dans le monde arabe et s’apprêtent à toucher le Maroc, jusque-là épargné par la vague de contestation. Ce dimanche, des manifestations sont prévues dans plusieurs villes du royaume chérifien à l’appel du Mouvement pour le changement du 20 Février.
Les organisateurs du mouvement qui prônent « des actions militantes et pacifiques » ont réuni sur Facebook plus de 19 000 adhésions à ce rassemblement dont l’objectif est de « rétablir la dignité du peuple marocain ». Parmi leurs principales demandes des réformes démocratiques et constitutionnelles ainsi que la dissolution la dissolution du Parlement.
Si les récentes révolutions tunisienne et égyptienne ont remis en haut de l’agenda politique la réforme de la Constitution, les initiateurs du Mouvement du 20 février revendiquent également de meilleures conditions de vie, à l’exemple des protestataires égyptiens et tunisiens. Comme eux, ils dénoncent aussi le clientélisme, la corruption et l’opacité qui sévissent dans le pays.
RFI.
Les manifestations se multiplient dans le monde arabe et s’apprêtent à toucher le Maroc, jusque-là épargné par la vague de contestation. Ce dimanche, des manifestations sont prévues dans plusieurs villes du royaume chérifien à l’appel du Mouvement pour le changement du 20 Février.
Les organisateurs du mouvement qui prônent « des actions militantes et pacifiques » ont réuni sur Facebook plus de 19 000 adhésions à ce rassemblement dont l’objectif est de « rétablir la dignité du peuple marocain ». Parmi leurs principales demandes des réformes démocratiques et constitutionnelles ainsi que la dissolution la dissolution du Parlement.
Si les récentes révolutions tunisienne et égyptienne ont remis en haut de l’agenda politique la réforme de la Constitution, les initiateurs du Mouvement du 20 février revendiquent également de meilleures conditions de vie, à l’exemple des protestataires égyptiens et tunisiens. Comme eux, ils dénoncent aussi le clientélisme, la corruption et l’opacité qui sévissent dans le pays.
RFI.
Bengasi (Libia),250 morti,in Marocco scontri manifestanti-polizia, Il PCL invita alla mobilitazione in solidarieta' alla rivolta libica.
Libia, razzi su Bengasi: 285 morti
Minacce all'Ue: stop a cooperazione sui migranti
LIBIA: RIVOLTA SI ESTENDE, 285 MORTI; TRIPOLI MINACCIA LA UE
Sale il bilancio delle vittime in Libia, 285 solo a Bengasi secondo fonti mediche. La Farnesina sconsiglia i viaggi in Cirenaica. Tripoli: stop alla cooperazione sull'immigrazione se non cessa il sostegno alla rivolta. La Russa: su Gheddafi non avrei usato la parola 'disturbarè. In Iran arrestata e rilasciata la figlia dell'ex presidente iraniano Akbar Hashemi Rafsanjani, in piazza con l'opposizione. Disordini proseguono anche nello Yemen, studenti nelle strade, almeno due morti.
IMMIGRAZIONE, LIBIA MINACCIA STOP COOPERAZIONE CON UE
Se l'Unione Europea non cesserà di sostenere le rivolte in corso nei Paesi del Nord Africa e in particolare in Libia, Tripoli cesserà ogni cooperazione con la Ue in materia di gestione dei flussi migratori: è questa la «minaccia» arrivata alla presidenza ungherese di turno della Ue da parte delle autorità libiche. La minaccia delle autorità libiche è stata resa nota giovedì scorso all'ambasciatore ungherese a Tripoli. L'Ungheria detiene la presidenza del semestre europeo. «Il nostro ambasciatore è stato convocato giovedì a Tripoli e gli è stato detto che se l'Unione europea non smetterà di sostenere i manifestanti, la
Libia interromperà gli accordi di cooperazione sull'immigrazione» illegale, ha riferito il portavoce della presidenza, Gergely Polner. Lo stesso messaggio «è stato poi trasmesso agli altri rappresentanti europei a Tripoli», ha aggiunto il portavoce, precisando che le autorità libiche hanno voluto in questo modo esprimere la loro insoddisfazione per le dichiarazioni giunte dall'Europa. In particolare per le dichiarazioni fatte mercoledì dall'alto rappresentante della Politica estera della Ue, Catherine Ashton, con le quali si invitava Tripoli ad ascoltare la voce del popolo e, soprattutto, ad evitare qualsiasi forma di violenza.
FONTI MEDICHE, 285 MORTI A BENGASI
Fonti mediche citate dal sito 'Lybia al Youm' affermano che sono 285 le persone rimaste uccise a Bengasi durante gli scontri fra manifestanti e forze dell'ordine.
FARNESINA,NO TASSATIVO A VIAGGI IN CIRENAICA
In considerazione della gravità della situazione in Cirenaica, in particolare nelle città di Bengasi, Ajdabya, Al Marj, Al Beida, Derna e Tobruk, la Farnesina «sconsiglia tassativamente qualsiasi viaggio non essenziale nella Regione». Recita così l'ultimo avviso particolare sulla Libia pubblicato oggi sul sito della Farnesina viaggiare sicuri.
AL JAZIRA, A BENGASI LANCIO RAZZI RPG
L'esercito sta sparando razzi Rpg sui manifestanti a Bengasi. Lo riferisce una testimone alla televisione satellitare Al Jazira, aggiungendo che le forze dell'ordine stanno anche utilizzando proiettili urticanti per disperdere la manifestazioni. Secondo un attivista , Mohamed Nabus, sono 258 i corpi all'obitorio dell'ospedale al Galaa della città.
Marocco: scontri polizia-manifestanti
Polizia ha fatto uso gas lacrimogeni per disperdere dimostran(ANSA) - RABAT, 20 FEB - Scontri tra polizia e manifestanti sono scoppiati oggi ad Al Hoceima, nel nord del Marocco. Lo riferiscono testimoni. La polizia ha fatto uso di gas lacrimogeni per disperdere dei manifestanti che avevano preso d'assalto una stazione di polizia. Manifestazioni a sostegno di riforme politiche e per una maggiore democratizzazione del Paese si sono svolte in tutto il Marocco. Incidenti anche a Marrakech (nel sud) e Larache (nel nord).
PIENO SOSTEGNO ALLA RIVOLTA LIBICA.
CONTRO GHEDDAFI E BERLUSCONI.
La rivolta popolare della Cirenaica contro il regime di Gheddafi è la continuità della rivoluzione araba iniziata in Tunisia e in Egitto. Un regime sostenuto per dieci anni dai governi italiani di ogni colore sta cercando di annegare nel sangue la rivolta di massa per la libertà. Tutte le sinistre italiane hanno il dovere di sostenere tale rivolta contro Gheddafi e contro il suo protettore Berlusconi, organizzando da subito il presidio dell'ambasciata e dei consolati libici.
Berlusconi e Bossi sono i primi complici di Gheddafi e dei suoi crimini. Lo hanno coperto di miliardi in cambio di commesse per i capitalisti italiani e di campi di prigionia ( e di tortura) per i migranti d'Africa, col contorno di amazzoni e scambi “culturali” tra Sultani. Il silenzio di Berlusconi sulla strage in corso è solo la confessione ipocrita di questa complicità. Per questo il sostegno alla rivoluzione libica è parte integrante della lotta per rovesciare Berlusconi e aprire la via di una alternativa vera.
PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI
Minacce all'Ue: stop a cooperazione sui migranti
LIBIA: RIVOLTA SI ESTENDE, 285 MORTI; TRIPOLI MINACCIA LA UE
Sale il bilancio delle vittime in Libia, 285 solo a Bengasi secondo fonti mediche. La Farnesina sconsiglia i viaggi in Cirenaica. Tripoli: stop alla cooperazione sull'immigrazione se non cessa il sostegno alla rivolta. La Russa: su Gheddafi non avrei usato la parola 'disturbarè. In Iran arrestata e rilasciata la figlia dell'ex presidente iraniano Akbar Hashemi Rafsanjani, in piazza con l'opposizione. Disordini proseguono anche nello Yemen, studenti nelle strade, almeno due morti.
IMMIGRAZIONE, LIBIA MINACCIA STOP COOPERAZIONE CON UE
Se l'Unione Europea non cesserà di sostenere le rivolte in corso nei Paesi del Nord Africa e in particolare in Libia, Tripoli cesserà ogni cooperazione con la Ue in materia di gestione dei flussi migratori: è questa la «minaccia» arrivata alla presidenza ungherese di turno della Ue da parte delle autorità libiche. La minaccia delle autorità libiche è stata resa nota giovedì scorso all'ambasciatore ungherese a Tripoli. L'Ungheria detiene la presidenza del semestre europeo. «Il nostro ambasciatore è stato convocato giovedì a Tripoli e gli è stato detto che se l'Unione europea non smetterà di sostenere i manifestanti, la
Libia interromperà gli accordi di cooperazione sull'immigrazione» illegale, ha riferito il portavoce della presidenza, Gergely Polner. Lo stesso messaggio «è stato poi trasmesso agli altri rappresentanti europei a Tripoli», ha aggiunto il portavoce, precisando che le autorità libiche hanno voluto in questo modo esprimere la loro insoddisfazione per le dichiarazioni giunte dall'Europa. In particolare per le dichiarazioni fatte mercoledì dall'alto rappresentante della Politica estera della Ue, Catherine Ashton, con le quali si invitava Tripoli ad ascoltare la voce del popolo e, soprattutto, ad evitare qualsiasi forma di violenza.
FONTI MEDICHE, 285 MORTI A BENGASI
Fonti mediche citate dal sito 'Lybia al Youm' affermano che sono 285 le persone rimaste uccise a Bengasi durante gli scontri fra manifestanti e forze dell'ordine.
FARNESINA,NO TASSATIVO A VIAGGI IN CIRENAICA
In considerazione della gravità della situazione in Cirenaica, in particolare nelle città di Bengasi, Ajdabya, Al Marj, Al Beida, Derna e Tobruk, la Farnesina «sconsiglia tassativamente qualsiasi viaggio non essenziale nella Regione». Recita così l'ultimo avviso particolare sulla Libia pubblicato oggi sul sito della Farnesina viaggiare sicuri.
AL JAZIRA, A BENGASI LANCIO RAZZI RPG
L'esercito sta sparando razzi Rpg sui manifestanti a Bengasi. Lo riferisce una testimone alla televisione satellitare Al Jazira, aggiungendo che le forze dell'ordine stanno anche utilizzando proiettili urticanti per disperdere la manifestazioni. Secondo un attivista , Mohamed Nabus, sono 258 i corpi all'obitorio dell'ospedale al Galaa della città.
Marocco: scontri polizia-manifestanti
Polizia ha fatto uso gas lacrimogeni per disperdere dimostran(ANSA) - RABAT, 20 FEB - Scontri tra polizia e manifestanti sono scoppiati oggi ad Al Hoceima, nel nord del Marocco. Lo riferiscono testimoni. La polizia ha fatto uso di gas lacrimogeni per disperdere dei manifestanti che avevano preso d'assalto una stazione di polizia. Manifestazioni a sostegno di riforme politiche e per una maggiore democratizzazione del Paese si sono svolte in tutto il Marocco. Incidenti anche a Marrakech (nel sud) e Larache (nel nord).
PIENO SOSTEGNO ALLA RIVOLTA LIBICA.
CONTRO GHEDDAFI E BERLUSCONI.
La rivolta popolare della Cirenaica contro il regime di Gheddafi è la continuità della rivoluzione araba iniziata in Tunisia e in Egitto. Un regime sostenuto per dieci anni dai governi italiani di ogni colore sta cercando di annegare nel sangue la rivolta di massa per la libertà. Tutte le sinistre italiane hanno il dovere di sostenere tale rivolta contro Gheddafi e contro il suo protettore Berlusconi, organizzando da subito il presidio dell'ambasciata e dei consolati libici.
Berlusconi e Bossi sono i primi complici di Gheddafi e dei suoi crimini. Lo hanno coperto di miliardi in cambio di commesse per i capitalisti italiani e di campi di prigionia ( e di tortura) per i migranti d'Africa, col contorno di amazzoni e scambi “culturali” tra Sultani. Il silenzio di Berlusconi sulla strage in corso è solo la confessione ipocrita di questa complicità. Per questo il sostegno alla rivoluzione libica è parte integrante della lotta per rovesciare Berlusconi e aprire la via di una alternativa vera.
PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI
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Libia Marocco rivolta solidarieta'
sabato 19 febbraio 2011
Egitto, la rivolta dei giovani
Rivolta dei giovani
Intervista sui fatti d'Egitto a Fawaz Trabulsi, storico e professore all'Università' Americana di Beirut
scritto per noi da Erminia Calabrese
"A seguito della rivoluzione egiziana Israele ha scoperto che fare un accordo con un regime non significa necessariamente farlo con un popolo". Fawaz Trabulsi, storico e professore all'Università Americana di Beirut é autore di diversi libri e cofondatore dell'Organizzazione per l'Azione Comunista negli anni Settanta in Libano le cui priorità erano la resistenza contro Israele e le riforme socio-economiche nel Paese. Ha tradotto, inoltre, in arabo le opere di Antonio Gramsci.
Che ruolo avrà l'amministrazione statunitense nel governo di transizione egiziano del dopo Mubarak?
Credo che all'inizio della rivoluzione l'obiettivo dell'amministrazione statunitense sia stato quello di mantenere a tutti i costi il Presidente Mubarak e il suo regime apportando solo delle piccole modifiche. Quando ad un certo punto e' diventato impossibile continuare su questa linea hanno optato per Omar Suleiman e quando anche questo tentativo non ha avuto successo hanno scelto di consegnare il paese all'esercito. Ora gli statunitensi sono interessati nella scelta del nuovo presidente egiziano e ancora di piu sono interessati a mantenere gli accordi di Camp David e la pace con Israele.
C'e' un rischio per gli accordi di pace con Israele?
No. Molto probabilmente il nuovo regime non dimenticherà questi accordi anche perché non era Mubarak a difenderli, ma questo non vuol dire che Israele non abbia perso qualcosa. Mubarak e' stato in effetti l'uomo che ha fatto si che l'Egitto esca dal consenso arabo e che possa diventare un paese mediatore tra palestinesi e israeliani. E' stato l'uomo che ha fornito servizi e firmato vari accordi economici con Israele tra il quale quello di vendita del gas egiziano con un prezzo inferiore rispetto alla media internazionale e con un prezzo fisso per 20 anni. Israele oggi scopre che l'Accordo è stato fatto con un regime e non con lo Stato ne' tantomeno con la popolazione.
Come sara' il dopo Mubarak?
Bisogna solo aspettare. Non possiamo fare delle previsioni adesso. Quello che e' importante e' di sottolineare I fattori socio-economici di questa rivoluzione che già dal secondo giorno si e' manifestata come una rivendicazione di operai, funzionari e studenti. Per una volta il politico e il sociale sono andati di pari passo. La gente e' scesa in piazza chiedendo la fine del regime di Mubarak, chiedendo la libertà, un'uguale redistribuzione delle ricchezze, un aumento dei salari, e sindacati liberi.
Tunisia e poi Egitto possiamo dire di aver assistito al risveglio del panarabismo nella regione?
Più che un panarabismo in se stesso queste rivoluzioni fanno scoprire al mondo occidentale che il mondo arabo e' legato da legami solidi. Queste rivoluzioni hanno messo in primo piano un identità araba mentre il discorso egemonico dei media occidentali voleva spostare a tutti i costi l'attenzione sull'Islam. In ogni caso si tratta di un nuovo arabismo al posto di panarabismo nel senso ideologico. Questa nuovo arabismo si basa sul fatto che il mondo arabo ha dei problemi in comune: disoccupazione, povertà, una gioventù che rappresenta quasi la meta del paese e che e' istruita senza un lavoro.
Come giudica la stampa internazionale che ha spostato l'accento sull'Islam fino a temere un aumento del potere dei Fratelli Musulmani mentre in Medio Oriente uno stato quello ebraico e' stato costruito dai "fratelli ebraici"?
Nel caso tunisino e egiziano gli islamisti si sono rivelati nella loro vera forza cioè rappresentanti del 15 o 20 percento della popolazione e in tutti e due casi questi partiti vogliono entrare a far parte del gioco democratico. Nel caso egiziano I Fratelli Musulmani sono una forza conservatrice che vuole impegnarsi nella politica e che vuole rivendicare il suo diritto nelle istituzioni. Ma c'e' una terza forza tra l'Islam e il potere che non e' solo la sinistra o i nasseristi sono i giovani, una nuova generazione uscita dalle classe medie di cui nessuno parla. In ogni caso se siamo in una democrazia dobbiamo accettare le scelte della gente. Come gli arabi accettano di vedere alla testa degli Stati Uniti un presidente criminale come George W. Bush anche gli occidentali devono accettare la volontà del popolo arabo anche se questi scelgono islamisti. Poi per quanto riguarda i Fratelli Musulmani questi ultimi sono molto ambigui sulla questione di Camp David.
Pensa che il modello della Turchia possa imporsi come modello da imitare per l'Egitto e gli altri paesi arabi?
Credo che tutta questa percezione dell'occidente di voler vedere la Turchia come modello si basi su una concezione occidentale che solo gli islamisti possono governare e io non sono convinto di questo. La Turchia e' un paese industrializzato e ricco. Ha uno stato e un esercito forte. Non e' facile prendere questo paese come modello.
E il Libano aspetta la rivoluzione?
La rivoluzione in Libano e una grande parola.E' un paese molto diviso. La vera rivoluzione dovrebbe essere quella di creare una nuova corrente che possa mettere fine alla polarizzazione politica tra 8 e 14 marzo. Una corrente nazional-popolare trans confessionale. Una corrente che accetti le armi di Hezbollah che minimizzi il ruolo di difesa a Israele e che faccia più riforme socio-economiche perche il Libano ne ha molto bisogno.
Christian Elia
www.peacereporter.net
Intervista sui fatti d'Egitto a Fawaz Trabulsi, storico e professore all'Università' Americana di Beirut
scritto per noi da Erminia Calabrese
"A seguito della rivoluzione egiziana Israele ha scoperto che fare un accordo con un regime non significa necessariamente farlo con un popolo". Fawaz Trabulsi, storico e professore all'Università Americana di Beirut é autore di diversi libri e cofondatore dell'Organizzazione per l'Azione Comunista negli anni Settanta in Libano le cui priorità erano la resistenza contro Israele e le riforme socio-economiche nel Paese. Ha tradotto, inoltre, in arabo le opere di Antonio Gramsci.
Che ruolo avrà l'amministrazione statunitense nel governo di transizione egiziano del dopo Mubarak?
Credo che all'inizio della rivoluzione l'obiettivo dell'amministrazione statunitense sia stato quello di mantenere a tutti i costi il Presidente Mubarak e il suo regime apportando solo delle piccole modifiche. Quando ad un certo punto e' diventato impossibile continuare su questa linea hanno optato per Omar Suleiman e quando anche questo tentativo non ha avuto successo hanno scelto di consegnare il paese all'esercito. Ora gli statunitensi sono interessati nella scelta del nuovo presidente egiziano e ancora di piu sono interessati a mantenere gli accordi di Camp David e la pace con Israele.
C'e' un rischio per gli accordi di pace con Israele?
No. Molto probabilmente il nuovo regime non dimenticherà questi accordi anche perché non era Mubarak a difenderli, ma questo non vuol dire che Israele non abbia perso qualcosa. Mubarak e' stato in effetti l'uomo che ha fatto si che l'Egitto esca dal consenso arabo e che possa diventare un paese mediatore tra palestinesi e israeliani. E' stato l'uomo che ha fornito servizi e firmato vari accordi economici con Israele tra il quale quello di vendita del gas egiziano con un prezzo inferiore rispetto alla media internazionale e con un prezzo fisso per 20 anni. Israele oggi scopre che l'Accordo è stato fatto con un regime e non con lo Stato ne' tantomeno con la popolazione.
Come sara' il dopo Mubarak?
Bisogna solo aspettare. Non possiamo fare delle previsioni adesso. Quello che e' importante e' di sottolineare I fattori socio-economici di questa rivoluzione che già dal secondo giorno si e' manifestata come una rivendicazione di operai, funzionari e studenti. Per una volta il politico e il sociale sono andati di pari passo. La gente e' scesa in piazza chiedendo la fine del regime di Mubarak, chiedendo la libertà, un'uguale redistribuzione delle ricchezze, un aumento dei salari, e sindacati liberi.
Tunisia e poi Egitto possiamo dire di aver assistito al risveglio del panarabismo nella regione?
Più che un panarabismo in se stesso queste rivoluzioni fanno scoprire al mondo occidentale che il mondo arabo e' legato da legami solidi. Queste rivoluzioni hanno messo in primo piano un identità araba mentre il discorso egemonico dei media occidentali voleva spostare a tutti i costi l'attenzione sull'Islam. In ogni caso si tratta di un nuovo arabismo al posto di panarabismo nel senso ideologico. Questa nuovo arabismo si basa sul fatto che il mondo arabo ha dei problemi in comune: disoccupazione, povertà, una gioventù che rappresenta quasi la meta del paese e che e' istruita senza un lavoro.
Come giudica la stampa internazionale che ha spostato l'accento sull'Islam fino a temere un aumento del potere dei Fratelli Musulmani mentre in Medio Oriente uno stato quello ebraico e' stato costruito dai "fratelli ebraici"?
Nel caso tunisino e egiziano gli islamisti si sono rivelati nella loro vera forza cioè rappresentanti del 15 o 20 percento della popolazione e in tutti e due casi questi partiti vogliono entrare a far parte del gioco democratico. Nel caso egiziano I Fratelli Musulmani sono una forza conservatrice che vuole impegnarsi nella politica e che vuole rivendicare il suo diritto nelle istituzioni. Ma c'e' una terza forza tra l'Islam e il potere che non e' solo la sinistra o i nasseristi sono i giovani, una nuova generazione uscita dalle classe medie di cui nessuno parla. In ogni caso se siamo in una democrazia dobbiamo accettare le scelte della gente. Come gli arabi accettano di vedere alla testa degli Stati Uniti un presidente criminale come George W. Bush anche gli occidentali devono accettare la volontà del popolo arabo anche se questi scelgono islamisti. Poi per quanto riguarda i Fratelli Musulmani questi ultimi sono molto ambigui sulla questione di Camp David.
Pensa che il modello della Turchia possa imporsi come modello da imitare per l'Egitto e gli altri paesi arabi?
Credo che tutta questa percezione dell'occidente di voler vedere la Turchia come modello si basi su una concezione occidentale che solo gli islamisti possono governare e io non sono convinto di questo. La Turchia e' un paese industrializzato e ricco. Ha uno stato e un esercito forte. Non e' facile prendere questo paese come modello.
E il Libano aspetta la rivoluzione?
La rivoluzione in Libano e una grande parola.E' un paese molto diviso. La vera rivoluzione dovrebbe essere quella di creare una nuova corrente che possa mettere fine alla polarizzazione politica tra 8 e 14 marzo. Una corrente nazional-popolare trans confessionale. Una corrente che accetti le armi di Hezbollah che minimizzi il ruolo di difesa a Israele e che faccia più riforme socio-economiche perche il Libano ne ha molto bisogno.
Christian Elia
www.peacereporter.net
Solidarieta' con la rivolta popolare in Libia
Vada via Gheddafi ed il suo regime assassino
abbasso i suoi complici italiani
La scintilla della rivoluzione araba incendia anche la Libia, da oltre quarant’anni sotto il tallone del feroce regime guidato da Gheddafi. Con grande coraggio, settori crescenti di popolazione manifestano da giorni nonostante una repressione durissima. Le poche notizie che filtrano parlano di oltre 80 morti e dell’impiego dell’esercito, in particolare a Bengasi. Notizie difficili da verificare parlano di spaccature sia tra i militari che ai vertici politici con le dimissioni di alcuni esponenti storici dei “comitati rivoluzionari” che nel 1969 deposero la monarchia.
Il regime libico ha finora svolto una funzione peculiare ed odiosa nel compito (oggi in crisi) di garantire l’ordine in Nord Africa per conto del sistema democratico totalitario. Esso ha imbavagliato ed immiserito la popolazione combinando una ferrea centralizzazione statale con strumentali alleanze con i vecchi poteri locali ed ha sviluppato oltre misura la corruzione, fiorita intorno allo sfruttamento degli immensi giacimenti petroliferi. Allo stesso tempo si è conquistato un ruolo di sfruttatore e carceriere (per conto dell’Europa) di centinaia di migliaia di profughi e di emigranti in transito dal Corno d’Africa o da altre aree del continente.
Lo Stato italiano ha delle enormi responsabilità, storiche ed attuali, dirette ed indirette, di cui oggi il governo è solo l’ultimo protagonista. Dalla guerra di sterminio e di conquista con cui, giusto un secolo fa, l’Italia ha massacrato quasi un decimo dell’intera popolazione, fino ai recenti accordi con cui si consegnano i profughi alle galere libiche; responsabilità che spiegano il silenzio di questi giorni in cui la Farnesina non spreca neppure parole di circostanza contro l’efferata repressione dei manifestanti.
Siamo al fianco dei giovani libici che con coraggio ed ispirandosi ai loro fratelli tunisini ed egiziani hanno ripreso il vento rivoluzionario e di libertà che soffia in tutto il mondo arabo. Nell’esprimere la nostra solidarietà verso le loro aspirazioni e contro la criminale repressione, denunciamo le gravi complicità e gli aiuti al regime dittatoriale portati in questi anni dal governo italiano.
abbasso i suoi complici italiani
La scintilla della rivoluzione araba incendia anche la Libia, da oltre quarant’anni sotto il tallone del feroce regime guidato da Gheddafi. Con grande coraggio, settori crescenti di popolazione manifestano da giorni nonostante una repressione durissima. Le poche notizie che filtrano parlano di oltre 80 morti e dell’impiego dell’esercito, in particolare a Bengasi. Notizie difficili da verificare parlano di spaccature sia tra i militari che ai vertici politici con le dimissioni di alcuni esponenti storici dei “comitati rivoluzionari” che nel 1969 deposero la monarchia.
Il regime libico ha finora svolto una funzione peculiare ed odiosa nel compito (oggi in crisi) di garantire l’ordine in Nord Africa per conto del sistema democratico totalitario. Esso ha imbavagliato ed immiserito la popolazione combinando una ferrea centralizzazione statale con strumentali alleanze con i vecchi poteri locali ed ha sviluppato oltre misura la corruzione, fiorita intorno allo sfruttamento degli immensi giacimenti petroliferi. Allo stesso tempo si è conquistato un ruolo di sfruttatore e carceriere (per conto dell’Europa) di centinaia di migliaia di profughi e di emigranti in transito dal Corno d’Africa o da altre aree del continente.
Lo Stato italiano ha delle enormi responsabilità, storiche ed attuali, dirette ed indirette, di cui oggi il governo è solo l’ultimo protagonista. Dalla guerra di sterminio e di conquista con cui, giusto un secolo fa, l’Italia ha massacrato quasi un decimo dell’intera popolazione, fino ai recenti accordi con cui si consegnano i profughi alle galere libiche; responsabilità che spiegano il silenzio di questi giorni in cui la Farnesina non spreca neppure parole di circostanza contro l’efferata repressione dei manifestanti.
Siamo al fianco dei giovani libici che con coraggio ed ispirandosi ai loro fratelli tunisini ed egiziani hanno ripreso il vento rivoluzionario e di libertà che soffia in tutto il mondo arabo. Nell’esprimere la nostra solidarietà verso le loro aspirazioni e contro la criminale repressione, denunciamo le gravi complicità e gli aiuti al regime dittatoriale portati in questi anni dal governo italiano.
martedì 15 febbraio 2011
Petrolio Brent (mercato europeo) 18$/b piu' alto del WTI, qualcuno ci spieghi i motivi
Petrolio Brent 18 $ (20%) piu' alto del WTI,chi ci spiega perche' ?
Il 15 febbraio alle 12,15 il Brent era 103,72$/b,il WTI 85,33$/b. L' ultima spiegazione data a questa differenza e' sul Sole24ore di oggi, che scrive di acquisti alti dalla Cina (che evidentemente sono piu' influenti su questo mercato) e tensioni in Medio Oriente (che dovrebbero pero' influire anche sul WTI che invece sta scendendo).
Quando e' iniziata la divaricazione tra i due mercati, quello europeo (Brent)e quello americano (WTI) la prima spiegazione e' stata l'incidente all' oleodotto Bp in Alaska che avrebbe interotto le forniture di greggio simile al Brent. Ma l' oleodotto e' stato riparato da tempo, alcune settimane, e la forbice invece aumenta sempre. Quindi evidentemente non era questo un motivo valido.
Altra tesi: le scorte USA abbondanti mentre il Brent viene venduto alla Cina che sta incrementando di molto gli acquisti. Gli incrementi cinesi sono veri, la stagnazione Usa non e' superiore alla stagnazione europea, ma se davvero il greggio destinato alla Cina viene da questo mercato questa potrebbe essere una delle cause della forbice.
Altro che viene detto: il Brent non include (o include) la consegna fisica e
le rivolte popolari arabe, che mettono in fibrillazione il Medio Oriente. Eventuali problemi nella produzione e trasporto in questa cruciale zona del mondo avrebbero ripercussioni piu' sul mercato europeo che in quello statunitense. Argomentazione non molto convincente perche' dal Medio Oriente viene almeno il 33% del greggio mondiale, ci sono il 60% dei giacimenti dichiarati, quindi eventuali problemi avrebbero ripercussioni su tutto il mercato del petrolio, compreso quello statunitense. Mentre ripeto il WTI e' sceso da un prezzo di 90$/b,raggiunto a inizio rivolta egiziana, a 85$/b di oggi
Nessuna ipotizza come una possibile causa il declino della produzione del greggio nel Mar del Nord Europa, greggio che dovrebbe essere la principale fonte di questo mercato. In questa zona il picco produttivo e' stato gia' superato e il declino e' piu' rapido del previsto.
Questo e' quel poco (molto poco) che si dice per spiegare un fenomeno (la forbice crescente tra Brent e Wti) che sta diventando rilevante (molto). Credo che le dimensioni di questa differenza meriterebbero una attenzione maggiore di analisti e osservatori
Marco Palombo
Il 15 febbraio alle 12,15 il Brent era 103,72$/b,il WTI 85,33$/b. L' ultima spiegazione data a questa differenza e' sul Sole24ore di oggi, che scrive di acquisti alti dalla Cina (che evidentemente sono piu' influenti su questo mercato) e tensioni in Medio Oriente (che dovrebbero pero' influire anche sul WTI che invece sta scendendo).
Quando e' iniziata la divaricazione tra i due mercati, quello europeo (Brent)e quello americano (WTI) la prima spiegazione e' stata l'incidente all' oleodotto Bp in Alaska che avrebbe interotto le forniture di greggio simile al Brent. Ma l' oleodotto e' stato riparato da tempo, alcune settimane, e la forbice invece aumenta sempre. Quindi evidentemente non era questo un motivo valido.
Altra tesi: le scorte USA abbondanti mentre il Brent viene venduto alla Cina che sta incrementando di molto gli acquisti. Gli incrementi cinesi sono veri, la stagnazione Usa non e' superiore alla stagnazione europea, ma se davvero il greggio destinato alla Cina viene da questo mercato questa potrebbe essere una delle cause della forbice.
Altro che viene detto: il Brent non include (o include) la consegna fisica e
le rivolte popolari arabe, che mettono in fibrillazione il Medio Oriente. Eventuali problemi nella produzione e trasporto in questa cruciale zona del mondo avrebbero ripercussioni piu' sul mercato europeo che in quello statunitense. Argomentazione non molto convincente perche' dal Medio Oriente viene almeno il 33% del greggio mondiale, ci sono il 60% dei giacimenti dichiarati, quindi eventuali problemi avrebbero ripercussioni su tutto il mercato del petrolio, compreso quello statunitense. Mentre ripeto il WTI e' sceso da un prezzo di 90$/b,raggiunto a inizio rivolta egiziana, a 85$/b di oggi
Nessuna ipotizza come una possibile causa il declino della produzione del greggio nel Mar del Nord Europa, greggio che dovrebbe essere la principale fonte di questo mercato. In questa zona il picco produttivo e' stato gia' superato e il declino e' piu' rapido del previsto.
Questo e' quel poco (molto poco) che si dice per spiegare un fenomeno (la forbice crescente tra Brent e Wti) che sta diventando rilevante (molto). Credo che le dimensioni di questa differenza meriterebbero una attenzione maggiore di analisti e osservatori
Marco Palombo
domenica 13 febbraio 2011
Successo delle manifestazioni al fianco del popolo arabo del 12 febbraio
A Milano erano presenti alcune migliaia di persone, moltissime bandiere egiziane, ma anche marocchine e palestinesi.
Questo il link di repubblica-edizione milanese con le foto della manifestazione.
http://milano.repubblica.it/cronaca/2011/02/12/foto/le_dimissioni_di_mubarak_milano_festeggia-12383929/1/
Su Il Manifesto piccoli pezzi sugli appuntamenti di Napoli e Roma.
l'Egitto a casa nostra
BERLUSCONI COME MUBARAK, MANIFESTAZIONI E MANIFESTI
Napoli
Una piccola Piazza Tahrir ieri anche a Napoli. Una manifestazione per festeggiare le dimissioni del presidente egiziano Hosni Mubarak si e' svolta infatti nel capoluogo partenopeo. Il corteo, promosso dal Comitato di sostegno al popolo egiziano e dalla rete antirazzista, e' partito da Piazza Garibaldi per dirigersi nelle strade interne del rione Vasto, dove vive la maggior parte sella comunita' araba ed africana di Napoli. "Piazza Tahrir pure qui " era lo slogan scandito dai manifestanti. Tra essi immigrati egiziani e dei Paesi del Maghreb.
Roma
BANDIERE EGIZIANE SVENTOLANO A ROMA
"Viva la rivoluzione araba che comincia" "Ieri eravamo tutti tunisini, oggi siamo tutti egiziani e domani saremo tutti liberi" e "A fianco di tutti i popoli arabi in lotta". Questi alcuni degli striscioni portati dai manifestanti ieri a piazza della Repubblica, a Roma, per mostrare solidarieta' ai popoli arabi in lotta. In tanti hanno sventolato bandiere dell' Egitto davanti alla basilica di Santa Maria degli Angeli. Alcuni di loro, avvolti dai vessili color rosso, bianco e nero (i colori della bandiera egiziana), hanno iniziato a fare, ballando, un piccolo girotondo: "In Egitto i nostri fratelli hanno dimostrato di avere coraggio - ha detto un manifestante al megafono - e seci sono riusciti la', significa che possiamo farlo ovunque. La gente comune si e' scagliata contro l' oppressione ed ha vinto. Il vecchio mondo, che e' in decadenza, sta finendo.".
Questo il link di repubblica-edizione milanese con le foto della manifestazione.
http://milano.repubblica.it/cronaca/2011/02/12/foto/le_dimissioni_di_mubarak_milano_festeggia-12383929/1/
Su Il Manifesto piccoli pezzi sugli appuntamenti di Napoli e Roma.
l'Egitto a casa nostra
BERLUSCONI COME MUBARAK, MANIFESTAZIONI E MANIFESTI
Napoli
Una piccola Piazza Tahrir ieri anche a Napoli. Una manifestazione per festeggiare le dimissioni del presidente egiziano Hosni Mubarak si e' svolta infatti nel capoluogo partenopeo. Il corteo, promosso dal Comitato di sostegno al popolo egiziano e dalla rete antirazzista, e' partito da Piazza Garibaldi per dirigersi nelle strade interne del rione Vasto, dove vive la maggior parte sella comunita' araba ed africana di Napoli. "Piazza Tahrir pure qui " era lo slogan scandito dai manifestanti. Tra essi immigrati egiziani e dei Paesi del Maghreb.
Roma
BANDIERE EGIZIANE SVENTOLANO A ROMA
"Viva la rivoluzione araba che comincia" "Ieri eravamo tutti tunisini, oggi siamo tutti egiziani e domani saremo tutti liberi" e "A fianco di tutti i popoli arabi in lotta". Questi alcuni degli striscioni portati dai manifestanti ieri a piazza della Repubblica, a Roma, per mostrare solidarieta' ai popoli arabi in lotta. In tanti hanno sventolato bandiere dell' Egitto davanti alla basilica di Santa Maria degli Angeli. Alcuni di loro, avvolti dai vessili color rosso, bianco e nero (i colori della bandiera egiziana), hanno iniziato a fare, ballando, un piccolo girotondo: "In Egitto i nostri fratelli hanno dimostrato di avere coraggio - ha detto un manifestante al megafono - e seci sono riusciti la', significa che possiamo farlo ovunque. La gente comune si e' scagliata contro l' oppressione ed ha vinto. Il vecchio mondo, che e' in decadenza, sta finendo.".
sabato 12 febbraio 2011
Yemen, migliaia in piazza "Saleh, dopo Mubarak tocca a te"
Sanaa, 12 feb. - Al grido di 'Saleh, dopo Mubarak tocca a te', migliaia di giovani yemeniti si sono radunati nel centro di Sanaa per chiedere le dimissioni del presidente Ali Abdallah Saleh, al potere dal 1978. Quattromila manifestanti si sono diretti verso l'universita' della capitale, dopo uno scontro tra un gruppo di studenti che tentava di affiggere un manifesto contro il governo e i sostenitori del partito al potere. Venerdi' in migliaia hanno festeggiato le dimissioni di Mubarak.
Fonte Agi-www.repubblica.it.
Fonte Agi-www.repubblica.it.
Algeria, manifestazioni,con scontri,per liberta' e cambiamento del regime.
Algeri, la protesta in piazza
si chiede "democrazia e libertà"Nonostante il divieto della polizia, i manifestanti stanno confluendo in piazza Primo maggio. La città presidiata dalle forze dell'ordine. Primi arresti
ALGERI - Sale la tensione nella capitale algerina. La polizia stamattina ha compiuto fermi nel centro di Algeri dove, nonostante il divieto delle autorità, si sono riuniti i manifestanti. E ci sono stati anche degli scontri quando un corteo di circa duemila persone è riuscito a sfondare un cordone formato da agenti di polizia in tenuta anti-sommossa. Le forze dell'ordine erano state dispiegati nelle strade della capitale già molto prima della manifestazione dell'opposizione di oggi nella capitale. Al-Arabiya ha ricordato che giovedì scorso il quotidiano locale 'Echorouk' aveva parlato di 25 mila uomini delle forze dell'ordine impiegati.
La protesta di oggi è stata definita come la "giornata della svolta". Sindacati, partiti d'opposizione e associazioni, hanno lanciato un appello a manifestare per reclamare "democrazia e libertà" ma anche "un cambiamento del regime". Due leader dell'opposizione algerina sono scesi in piazza Primo Maggio ad Algeri unendosi ai manifestanti, circondati dalle forze di sicurezza, presenti in modo massiccio. Si tratta di Ali Yahia Abdenour, ottantenne presidente della Lega algerina per i diritti umani, e di Said Sadi, leader del Raggruppamento per la cultura e la democrazia (Rcd).
Fonte www.repubblica.it
si chiede "democrazia e libertà"Nonostante il divieto della polizia, i manifestanti stanno confluendo in piazza Primo maggio. La città presidiata dalle forze dell'ordine. Primi arresti
ALGERI - Sale la tensione nella capitale algerina. La polizia stamattina ha compiuto fermi nel centro di Algeri dove, nonostante il divieto delle autorità, si sono riuniti i manifestanti. E ci sono stati anche degli scontri quando un corteo di circa duemila persone è riuscito a sfondare un cordone formato da agenti di polizia in tenuta anti-sommossa. Le forze dell'ordine erano state dispiegati nelle strade della capitale già molto prima della manifestazione dell'opposizione di oggi nella capitale. Al-Arabiya ha ricordato che giovedì scorso il quotidiano locale 'Echorouk' aveva parlato di 25 mila uomini delle forze dell'ordine impiegati.
La protesta di oggi è stata definita come la "giornata della svolta". Sindacati, partiti d'opposizione e associazioni, hanno lanciato un appello a manifestare per reclamare "democrazia e libertà" ma anche "un cambiamento del regime". Due leader dell'opposizione algerina sono scesi in piazza Primo Maggio ad Algeri unendosi ai manifestanti, circondati dalle forze di sicurezza, presenti in modo massiccio. Si tratta di Ali Yahia Abdenour, ottantenne presidente della Lega algerina per i diritti umani, e di Said Sadi, leader del Raggruppamento per la cultura e la democrazia (Rcd).
Fonte www.repubblica.it
venerdì 11 febbraio 2011
Quanto pesano sulle bollette elettriche gli incentivi alle rinnovabili, nucleare, pseudoassimilate
Fotovoltaico, Cip6, nucleare e il peso della bolletta
Il GSE conferma i numeri impressionanti sul fotovoltaico e l'Autorità per l'Energia attacca gli incentivi alle fonti rinnovabili per il loro peso in bolletta. Poco si dice però sugli aiuti ad altre fonti sporche che ci costano altrettanto e del rischio che dal ritorno al nucleare ci potrà arrivare una nuova stangata.
Continua la polemica sul peso degli incentivi alla rinnovabili elettriche e si incrocia con quella sui numeri del fotovoltaico. Nelle settimane scorse il GSE aveva diffuso dati impressionanti sugli impianti fotovoltaici che avranno diritto alle tariffe 2010 secondo la legge “Salva Alcoa”: circa 4.000 MW per 55mila richieste. Erano seguite le obiezioni delle associazioni secondo cui i numeri del Gestore sarebbero gonfiati da richieste fasulle e dunque forieri di inutile allarmismo. Secondo Assosolare in realtà nel 2010 non si sarebbero installati più di 1,5 GW (Qualenergia.it, Assosolare: le stime GSE sono esagerate), anche Aper, Fiper e Gifi hanno invitato alla cautela e a controllare bene le stime. L'altro ieri però il GSE confermava sostanzialmente i numeri (54.106 impianti, per una potenza totale dichiarata di 3.771 MW, vedi tabelle in allegato).
Cifre che potrebbero anche aumentare visto che c'è tempo per inviare le domande di ammissione agli incentivi 2010 fino al termine del mese di febbraio, ma che andranno anche scremate, tramite i controlli che il GSE sta operando, da quelle pratiche false e speculative, che hanno dichiarato mentendo di aver finito i lavori entro il 31 dicembre 2010. Quali saranno i numeri definitivi insomma lo sapremo solo tra diversi mesi, ma intanto i dati GSE hanno gettato benzina sul fuoco del dibattito sul peso degli incentivi alle rinnovabili. Una polemica che ha avuto una nuova spinta nei giorni scorsi con la presentazione al Governo della relazione sullo stato del mercato dell'energia da parte dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas (vedi allegato).
Gli incentivi, dice il documento, prevedono un prelievo complessivo che è passato dai 2,5 miliardi di euro del 2009 ai 3,4 del 2010, mentre nel 2011 potrebbe arrivare fino ai 5,7 miliardi totali (vedi grafici). Nell’illustrare i numeri, il GSE suggeriva di rivedere, appunto, il sistema di incentivazione «per attenuare l’impatto che tali costi determinano sulle bollette di famiglie e imprese e rendere le incentivazioni maggiormente efficienti», mettendo sul banco degli imputati soprattutto il fotovoltaico e il Cip6/92.
Non si sono fatte attendere le reazioni degli ambientalisti. Greenpeace, Legambiente e Wwf in un comunicato congiunto esprimono "grave preoccupazione per un attacco che mette in discussione il raggiungimento degli obiettivi europei al 2020". L'Autorità, fanno notare le associazioni, trascura l'impatto macroeconomico e occupazionale dello sviluppo delle rinnovabili che "fa sì che i maggiori costi abbiano effetti netti positivi, oltre che sull'ambiente, anche sull'economia (da 23 a 27 miliardi di euro al 2020 secondo lo studio IREX 2010)". Si ricorda poi come anche l'Europa abbia indicato chiaramente che il costo delle rinnovabili debba essere a carico dei consumatori di energia e non della fiscalità, per evitare effetti stop and go.
E poi si fa notare come un peso ben più grande sulle bollette potrebbe averlo l'atomo, soprattutto per quell’articolo 17 del decreto legislativo 31/2010 che prevede che chi costruirà le centrali venga rimborsato in caso di ritardi nei tempi di realizzazione degli impianti da lui indipendenti. "Per due reattori EPR localizzati in un sito, una simile copertura potrebbe comportare oneri fino a diversi miliardi di euro. Soldi buttati. Inoltre – continua il comunicato - perché l’Autorità non diffonde i dati su quanto ha pagato finora il contribuente italiano per il nucleare? I costi del passato gravano ancora sulla nostra bolletta, ma questo non scandalizza l’Authority, e a quanto ci risulta ammontano a circa 400 milioni di euro l’anno."
Poi andare a guardare il peso che sulle nostre bollette hanno incentivi a fonti sporche e altri costi d'altra parte è sempre istruttivo (Qualenergia, Quella parte oscura della bolletta elettrica). Su una bolletta di 425 circa 16,4 € dei 31 legati agli “oneri generali” vanno a pagare il nucleare o l'energia convenzionale (ad esempio attraverso il Cip 6 alle raffinerie) o condizioni di fornitura particolari (come lo sconto a 120 grandi consumatori per il servizio di interrompibilità). Il resto, 15 €, ci permette di sostenere l’avvio dello sviluppo delle fonti rinnovabili.
A livello di Paese scopriamo, guardando la relazione dell'Autorità, che nel 2009 nucleare, assimilate e interrompibilità sono costate circa 2,24 miliardi di euro, contro i 2,1 mld di € per i contributi alle rinnovabili.
Fonte www.qualenergia.it
Il GSE conferma i numeri impressionanti sul fotovoltaico e l'Autorità per l'Energia attacca gli incentivi alle fonti rinnovabili per il loro peso in bolletta. Poco si dice però sugli aiuti ad altre fonti sporche che ci costano altrettanto e del rischio che dal ritorno al nucleare ci potrà arrivare una nuova stangata.
Continua la polemica sul peso degli incentivi alla rinnovabili elettriche e si incrocia con quella sui numeri del fotovoltaico. Nelle settimane scorse il GSE aveva diffuso dati impressionanti sugli impianti fotovoltaici che avranno diritto alle tariffe 2010 secondo la legge “Salva Alcoa”: circa 4.000 MW per 55mila richieste. Erano seguite le obiezioni delle associazioni secondo cui i numeri del Gestore sarebbero gonfiati da richieste fasulle e dunque forieri di inutile allarmismo. Secondo Assosolare in realtà nel 2010 non si sarebbero installati più di 1,5 GW (Qualenergia.it, Assosolare: le stime GSE sono esagerate), anche Aper, Fiper e Gifi hanno invitato alla cautela e a controllare bene le stime. L'altro ieri però il GSE confermava sostanzialmente i numeri (54.106 impianti, per una potenza totale dichiarata di 3.771 MW, vedi tabelle in allegato).
Cifre che potrebbero anche aumentare visto che c'è tempo per inviare le domande di ammissione agli incentivi 2010 fino al termine del mese di febbraio, ma che andranno anche scremate, tramite i controlli che il GSE sta operando, da quelle pratiche false e speculative, che hanno dichiarato mentendo di aver finito i lavori entro il 31 dicembre 2010. Quali saranno i numeri definitivi insomma lo sapremo solo tra diversi mesi, ma intanto i dati GSE hanno gettato benzina sul fuoco del dibattito sul peso degli incentivi alle rinnovabili. Una polemica che ha avuto una nuova spinta nei giorni scorsi con la presentazione al Governo della relazione sullo stato del mercato dell'energia da parte dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas (vedi allegato).
Gli incentivi, dice il documento, prevedono un prelievo complessivo che è passato dai 2,5 miliardi di euro del 2009 ai 3,4 del 2010, mentre nel 2011 potrebbe arrivare fino ai 5,7 miliardi totali (vedi grafici). Nell’illustrare i numeri, il GSE suggeriva di rivedere, appunto, il sistema di incentivazione «per attenuare l’impatto che tali costi determinano sulle bollette di famiglie e imprese e rendere le incentivazioni maggiormente efficienti», mettendo sul banco degli imputati soprattutto il fotovoltaico e il Cip6/92.
Non si sono fatte attendere le reazioni degli ambientalisti. Greenpeace, Legambiente e Wwf in un comunicato congiunto esprimono "grave preoccupazione per un attacco che mette in discussione il raggiungimento degli obiettivi europei al 2020". L'Autorità, fanno notare le associazioni, trascura l'impatto macroeconomico e occupazionale dello sviluppo delle rinnovabili che "fa sì che i maggiori costi abbiano effetti netti positivi, oltre che sull'ambiente, anche sull'economia (da 23 a 27 miliardi di euro al 2020 secondo lo studio IREX 2010)". Si ricorda poi come anche l'Europa abbia indicato chiaramente che il costo delle rinnovabili debba essere a carico dei consumatori di energia e non della fiscalità, per evitare effetti stop and go.
E poi si fa notare come un peso ben più grande sulle bollette potrebbe averlo l'atomo, soprattutto per quell’articolo 17 del decreto legislativo 31/2010 che prevede che chi costruirà le centrali venga rimborsato in caso di ritardi nei tempi di realizzazione degli impianti da lui indipendenti. "Per due reattori EPR localizzati in un sito, una simile copertura potrebbe comportare oneri fino a diversi miliardi di euro. Soldi buttati. Inoltre – continua il comunicato - perché l’Autorità non diffonde i dati su quanto ha pagato finora il contribuente italiano per il nucleare? I costi del passato gravano ancora sulla nostra bolletta, ma questo non scandalizza l’Authority, e a quanto ci risulta ammontano a circa 400 milioni di euro l’anno."
Poi andare a guardare il peso che sulle nostre bollette hanno incentivi a fonti sporche e altri costi d'altra parte è sempre istruttivo (Qualenergia, Quella parte oscura della bolletta elettrica). Su una bolletta di 425 circa 16,4 € dei 31 legati agli “oneri generali” vanno a pagare il nucleare o l'energia convenzionale (ad esempio attraverso il Cip 6 alle raffinerie) o condizioni di fornitura particolari (come lo sconto a 120 grandi consumatori per il servizio di interrompibilità). Il resto, 15 €, ci permette di sostenere l’avvio dello sviluppo delle fonti rinnovabili.
A livello di Paese scopriamo, guardando la relazione dell'Autorità, che nel 2009 nucleare, assimilate e interrompibilità sono costate circa 2,24 miliardi di euro, contro i 2,1 mld di € per i contributi alle rinnovabili.
Fonte www.qualenergia.it
mercoledì 9 febbraio 2011
Egypte: Moubarak fait des promesses
Egypte: Moubarak fait des promesses
by AfricaTimes.
Le président égyptien Hosni Moubarak a promis lundi une hausse de 15% des salaires des fonctionnaires et des retraites, au 14e jour de manifestations réclamant son départ, cependant que Barack Obama se félicitait des “progrès” enregistrés dans le dialogue avec ses opposants.
“Le gouvernement se préoccupe du citoyen égyptien et veut améliorer son niveau de vie”, a déclaré le Premier ministre Ahmad Chafic, à l’issue d’une première réunion de l’ensemble du Conseil des ministres depuis le remaniement pour faire face à la crise qui secoue le pays depuis deux semaines.
La hausse entrera en vigueur à partir du 1er avril. “Les augmentations des retraites coûtent au Trésor 6,5 milliards de livres égyptiennes (un peu plus d’un milliard de dollars)”, a précisé le ministre des Finances Samir Radwane.
Cette annonce n’a néanmoins pas apaisé la colère des protestataires. De nouvelles manifestations sont prévues mardi dans les grandes villes, et la place Tahrir, devenue un symbole de la contestation au Caire, restait occupée par des milliers de manifestants dans la soirée, a constaté un journaliste de l’AFP.
La veille, une nouvelle “séance de dialogue national” avait été organisée entre pouvoir et opposition, à laquelle les Frères musulmans, première force d’opposition, mais bête noire du régime, s’étaient joints. C’était la première fois en un demi-siècle que le pouvoir et la confrérie discutaient publiquement.
La Maison Blanche a indiqué lundi que les autorités américaines n’étaient pas en contact avec les Frères musulmans, soulignant “les nombreux désaccords (des Etats-Unis) avec les déclarations de certains dirigeants de cette organisation”.
Le président des Etats-Unis Barack Obama a estimé de son côté que le processus politique en Egypte enregistrait des “progrès”.
Pour autant, selon le porte-parole du département d’Etat américain, Philip Crowley, l’organisation d’élections libres à brève échéance en Egypte constituerait “une entreprise ambitieuse”.
Il a rappelé que la Constitution égyptienne prévoyait des élections dans un délai de 60 jours si le président Moubarak quittait le pouvoir.
“La question se poserait de savoir si l’Egypte est prête aujourd’hui à avoir des élections concurrentielles et ouvertes, sachant que le passé récent a montré, très honnêtement, que les élections n’avaient pas vraiment été libres et justes”, a dit M. Crowley.
La Maison Blanche a appelé par ailleurs tout futur gouvernement égyptien à respecter les “traités et engagements” actuels, allusion évidente au traité de paix liant l’Egypte à Israël.
De son côté, tout en affirmant que la France ne souhaitait pas “s’ingérer dans le choix du peuple égyptien”, le ministre français de la Défense Alain Juppé a souligné que Paris soutenait l’avènement d’une “réelle démocratie” et estimé que “la transition (devait) se développer dès que possible”.
Le site internet allemand d’information Spiegel Online écrivait dans la soirée que M. Moubarak pourrait venir effectuer “un bilan médical prolongé” en Allemagne, évoquant des réflexions “concrètes” en faveur d’une telle solution.
“Des discussions préparatoires avec les hôpitaux adéquats sont en cours, en particulier avec la clinique Max-Grundig à Bühl dans le Bade-Wurtemberg (sud-ouest)”, affirmé Spiegel Online, en citant des sources proches de cette clinique.
L’AFP n’a pu avoir la confirmation de telles discussions auprès de la clinique, et le porte-parole du gouvernement allemand a indiqué qu’il n’y avait eu “ni demande officielle, ni demande officieuse concernant un tel séjour”.
Dans le même temps, la vie reprenait doucement son cours au Caire, avec la réouverture des magasins et des routes depuis dimanche.
La durée du couvre-feu a été de nouveau réduite dans la capitale, à Alexandrie (nord) et Suez (est) : il sera désormais en vigueur de 20H00 (18H00 GMT) à 06H00 (04H00 GMT), contre 19H00 auparavant.
La Bourse du Caire, fermée depuis le 30 janvier, doit de son côté rouvrir le 13 février. Le constructeur automobile japonais Suzuki a par ailleurs annoncé avoir fait repartir sa production en Egypte, une semaine après l’avoir suspendue.
Devenu une figure de la mobilisation, un cadre égyptien du géant américain de l’internet Google, a été relâché lundi.
Wael Ghoneim, chef du marketing chez le géant de l’internet au Moyen-Orient et en Afrique selon sa page sur le réseau social pour professionnels LinkedIn, n’avait plus donné de nouvelles depuis le 28 janvier, après une manifestation géante au Caire.
Plutôt dans la journée lundi, plusieurs dizaines de personnes avaient bloqué l’accès à un important édifice gouvernemental à l’architecture soviétique, le Mougamma, donnant sur la place Tahrir.
Depuis le 3 février, les manifestations se déroulent le plus souvent dans le calme. Des heurts entre policiers et manifestants pendant les premiers jours de la contestation, puis entre militants pro et anti-Moubarak le 2 février, ont fait au moins 300 morts, selon un bilan non confirmé de l’ONU, et des milliers de blessés, selon des sources officielles et médicales.
Afp.
Fonte www.africa-times-news.com
by AfricaTimes.
Le président égyptien Hosni Moubarak a promis lundi une hausse de 15% des salaires des fonctionnaires et des retraites, au 14e jour de manifestations réclamant son départ, cependant que Barack Obama se félicitait des “progrès” enregistrés dans le dialogue avec ses opposants.
“Le gouvernement se préoccupe du citoyen égyptien et veut améliorer son niveau de vie”, a déclaré le Premier ministre Ahmad Chafic, à l’issue d’une première réunion de l’ensemble du Conseil des ministres depuis le remaniement pour faire face à la crise qui secoue le pays depuis deux semaines.
La hausse entrera en vigueur à partir du 1er avril. “Les augmentations des retraites coûtent au Trésor 6,5 milliards de livres égyptiennes (un peu plus d’un milliard de dollars)”, a précisé le ministre des Finances Samir Radwane.
Cette annonce n’a néanmoins pas apaisé la colère des protestataires. De nouvelles manifestations sont prévues mardi dans les grandes villes, et la place Tahrir, devenue un symbole de la contestation au Caire, restait occupée par des milliers de manifestants dans la soirée, a constaté un journaliste de l’AFP.
La veille, une nouvelle “séance de dialogue national” avait été organisée entre pouvoir et opposition, à laquelle les Frères musulmans, première force d’opposition, mais bête noire du régime, s’étaient joints. C’était la première fois en un demi-siècle que le pouvoir et la confrérie discutaient publiquement.
La Maison Blanche a indiqué lundi que les autorités américaines n’étaient pas en contact avec les Frères musulmans, soulignant “les nombreux désaccords (des Etats-Unis) avec les déclarations de certains dirigeants de cette organisation”.
Le président des Etats-Unis Barack Obama a estimé de son côté que le processus politique en Egypte enregistrait des “progrès”.
Pour autant, selon le porte-parole du département d’Etat américain, Philip Crowley, l’organisation d’élections libres à brève échéance en Egypte constituerait “une entreprise ambitieuse”.
Il a rappelé que la Constitution égyptienne prévoyait des élections dans un délai de 60 jours si le président Moubarak quittait le pouvoir.
“La question se poserait de savoir si l’Egypte est prête aujourd’hui à avoir des élections concurrentielles et ouvertes, sachant que le passé récent a montré, très honnêtement, que les élections n’avaient pas vraiment été libres et justes”, a dit M. Crowley.
La Maison Blanche a appelé par ailleurs tout futur gouvernement égyptien à respecter les “traités et engagements” actuels, allusion évidente au traité de paix liant l’Egypte à Israël.
De son côté, tout en affirmant que la France ne souhaitait pas “s’ingérer dans le choix du peuple égyptien”, le ministre français de la Défense Alain Juppé a souligné que Paris soutenait l’avènement d’une “réelle démocratie” et estimé que “la transition (devait) se développer dès que possible”.
Le site internet allemand d’information Spiegel Online écrivait dans la soirée que M. Moubarak pourrait venir effectuer “un bilan médical prolongé” en Allemagne, évoquant des réflexions “concrètes” en faveur d’une telle solution.
“Des discussions préparatoires avec les hôpitaux adéquats sont en cours, en particulier avec la clinique Max-Grundig à Bühl dans le Bade-Wurtemberg (sud-ouest)”, affirmé Spiegel Online, en citant des sources proches de cette clinique.
L’AFP n’a pu avoir la confirmation de telles discussions auprès de la clinique, et le porte-parole du gouvernement allemand a indiqué qu’il n’y avait eu “ni demande officielle, ni demande officieuse concernant un tel séjour”.
Dans le même temps, la vie reprenait doucement son cours au Caire, avec la réouverture des magasins et des routes depuis dimanche.
La durée du couvre-feu a été de nouveau réduite dans la capitale, à Alexandrie (nord) et Suez (est) : il sera désormais en vigueur de 20H00 (18H00 GMT) à 06H00 (04H00 GMT), contre 19H00 auparavant.
La Bourse du Caire, fermée depuis le 30 janvier, doit de son côté rouvrir le 13 février. Le constructeur automobile japonais Suzuki a par ailleurs annoncé avoir fait repartir sa production en Egypte, une semaine après l’avoir suspendue.
Devenu une figure de la mobilisation, un cadre égyptien du géant américain de l’internet Google, a été relâché lundi.
Wael Ghoneim, chef du marketing chez le géant de l’internet au Moyen-Orient et en Afrique selon sa page sur le réseau social pour professionnels LinkedIn, n’avait plus donné de nouvelles depuis le 28 janvier, après une manifestation géante au Caire.
Plutôt dans la journée lundi, plusieurs dizaines de personnes avaient bloqué l’accès à un important édifice gouvernemental à l’architecture soviétique, le Mougamma, donnant sur la place Tahrir.
Depuis le 3 février, les manifestations se déroulent le plus souvent dans le calme. Des heurts entre policiers et manifestants pendant les premiers jours de la contestation, puis entre militants pro et anti-Moubarak le 2 février, ont fait au moins 300 morts, selon un bilan non confirmé de l’ONU, et des milliers de blessés, selon des sources officielles et médicales.
Afp.
Fonte www.africa-times-news.com
Egitto, fratelli musulmani "Dialogo solo se Mubarak lascia"
Egitto, Fratelli Musulmani: 'Dialogo a patto che Mubarak lasci'
Il presidente invitato a lasciare l'incarico
Anche questa mattina, come avviene ormai da giorni, i Fratelli Musulmani hanno chiesto al presidente Hosni Mubarak di lasciare l'incarico. La principale formazione politica di opposizione in Egitto ha ribadito di essere disponibile a aprire il dialogo con il governo ma solo a patto che il presidente lasci il palazzo. "Mubarak deve abbandonare il suo incarico e deve iniziare per l'Egitto una nuova era" ha detto Mohammed Mursi, portavoce dei Fratelli Musulmani.
Insoddisfazione è stata espressa anche in merito ai colloqui avviati dal vicepresidente, Omar Suleiman. "Il regime ha fallito, però sembra che alcuni vedano questo dialogo come un monologo. Noi siamo con la volontà del popolo. Siamo con la maggioranza degli egiziani" ha aggiunto il portavoce.
Fonte peacereporter.net
Il presidente invitato a lasciare l'incarico
Anche questa mattina, come avviene ormai da giorni, i Fratelli Musulmani hanno chiesto al presidente Hosni Mubarak di lasciare l'incarico. La principale formazione politica di opposizione in Egitto ha ribadito di essere disponibile a aprire il dialogo con il governo ma solo a patto che il presidente lasci il palazzo. "Mubarak deve abbandonare il suo incarico e deve iniziare per l'Egitto una nuova era" ha detto Mohammed Mursi, portavoce dei Fratelli Musulmani.
Insoddisfazione è stata espressa anche in merito ai colloqui avviati dal vicepresidente, Omar Suleiman. "Il regime ha fallito, però sembra che alcuni vedano questo dialogo come un monologo. Noi siamo con la volontà del popolo. Siamo con la maggioranza degli egiziani" ha aggiunto il portavoce.
Fonte peacereporter.net
Sabato 12 febbraio, manifestazioni di solidarieta' con la rivolta popolare egiziana e di tutti i paesi arabi.
Sabato 12 febbraio, manifestazioni in tutta Italia in solidarieta' con i popoli arabi in lotta
A fianco di tutti i popoli arabi in lotta
Contro le dinastie oppressive e corrotte
Dalla Tunisia all’Egitto milioni di nostri fratelli e sorelle stanno lottando per la libertà la dignità la giustizia e per affermare una vita migliore. Abbiamo il dovere e la responsabilità di sostenerli, prendendo l’iniziativa anche in questo Paese. Promuoviamo una giornata di mobilitazione nazionale e solidarietà con i popoli arabi che unisca la gente di buona volontà, gli antirazzisti, la gente solidale e innanzitutto i fratelli e le sorelle immigrati, che esprima solidarietà a fianco di chi lotta nel mondo arabo e dia forza alle loro ragioni. Siamo tutti in piazza Tahrir.
Sabato - 12 febbraio manifestazioni a:
Napoli – Piazza Garibaldi ore 15.00
Milano - Piazzale Loreto (per il Nord) ore 15.00
Roma – Piazza della Repubblica ore 15.00
Firenze – Piazza San Marco ore 16.00
Palermo – ore 16.00
Manifestazioni sono previste anche in altre citta'
Il Comitato promotore
Aderiscono:
Associazione antirazzista ed interetnica “3 febbraio” – Coordinamento nazionale comitati solidali ed antirazzisti – Don Carlo D’Antoni – Comunità egiziana della A3F (Milano) - Valori Dimenticati (Vercelli) – CSV (Vercelli) - Socialismo Rivoluzionario – Comitato per la vita del popolo palestinese (Genova) – Unicobas - Socialismo Libertario
per adesioni
comitato.promotore12febbraio@gmail.com
A fianco di tutti i popoli arabi in lotta
Contro le dinastie oppressive e corrotte
Dalla Tunisia all’Egitto milioni di nostri fratelli e sorelle stanno lottando per la libertà la dignità la giustizia e per affermare una vita migliore. Abbiamo il dovere e la responsabilità di sostenerli, prendendo l’iniziativa anche in questo Paese. Promuoviamo una giornata di mobilitazione nazionale e solidarietà con i popoli arabi che unisca la gente di buona volontà, gli antirazzisti, la gente solidale e innanzitutto i fratelli e le sorelle immigrati, che esprima solidarietà a fianco di chi lotta nel mondo arabo e dia forza alle loro ragioni. Siamo tutti in piazza Tahrir.
Sabato - 12 febbraio manifestazioni a:
Napoli – Piazza Garibaldi ore 15.00
Milano - Piazzale Loreto (per il Nord) ore 15.00
Roma – Piazza della Repubblica ore 15.00
Firenze – Piazza San Marco ore 16.00
Palermo – ore 16.00
Manifestazioni sono previste anche in altre citta'
Il Comitato promotore
Aderiscono:
Associazione antirazzista ed interetnica “3 febbraio” – Coordinamento nazionale comitati solidali ed antirazzisti – Don Carlo D’Antoni – Comunità egiziana della A3F (Milano) - Valori Dimenticati (Vercelli) – CSV (Vercelli) - Socialismo Rivoluzionario – Comitato per la vita del popolo palestinese (Genova) – Unicobas - Socialismo Libertario
per adesioni
comitato.promotore12febbraio@gmail.com
martedì 8 febbraio 2011
Assange (WikiLeaks) su Italia,Berlusconi,Eni
Sul sito di informazione ComedonChisciotte una lunghissima intervista ad Assange dove si parla anche di Italia, Berlusconi,Eni ; credo che valga proprio la pena leggerla integralmente. Questo di seguito é l'indirizzo dove potete trovarla.
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&t=32173
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&t=32173
Treno radiottivo in Val di Susa, la polizia carica chi manifesta contro
Treno radioattivo Italia-Francia: cariche della polizia in Val di Susa
Il fantasma delle scorie si aggira per l’Europa
Umberto Mazzantini
LIVORNO. La Rete nazionale antinucleare (Rna) denuncia sulla sua pagina di Facebook: «Treno radioattivo: questa notte al presidio di Chiusa san Michele ore 3,50. Violenta repressione delle forze dell'ordine sui manifestanti. Violenta e inaudita carica e caccia all'uomo a Chiusa San Michele ore 3,50....30 persone a presidiare sul marciapiede il passaggio del treno radioattivo..poi partono le cariche, violente inaudite, pestaggi di gente già fermata, poi perquisizioni corporali, insulti, foto....questo il bilancio del presidio per il treno ...radioattivo, presidio che non intendeva bloccare ma richiamare l'attenzione sul passaggio delle scorie radioattive per il Piemonte in zone densamente popolate come la valle di Susa» e annuncia «In mattinata arriveranno altre informazioni e foto». Ed eccole con più particolari:
Ore 3:40: Sono state alzate le sbarre del pasaggio a livelo, ma nessun treno in vista. In questo momento i manifestanti, che si trovano sui marciapiedi davanti ai binari vengono caricati dalla polizia (circa 200 rappresentanti delle forze dell'ordine sono presenti), spinti indietro a manganellate fino alla statale e bloccati contro un muro....
Il testo integrale dell' articolo su http://energiapalombo.blogspot.com
Il fantasma delle scorie si aggira per l’Europa
Umberto Mazzantini
LIVORNO. La Rete nazionale antinucleare (Rna) denuncia sulla sua pagina di Facebook: «Treno radioattivo: questa notte al presidio di Chiusa san Michele ore 3,50. Violenta repressione delle forze dell'ordine sui manifestanti. Violenta e inaudita carica e caccia all'uomo a Chiusa San Michele ore 3,50....30 persone a presidiare sul marciapiede il passaggio del treno radioattivo..poi partono le cariche, violente inaudite, pestaggi di gente già fermata, poi perquisizioni corporali, insulti, foto....questo il bilancio del presidio per il treno ...radioattivo, presidio che non intendeva bloccare ma richiamare l'attenzione sul passaggio delle scorie radioattive per il Piemonte in zone densamente popolate come la valle di Susa» e annuncia «In mattinata arriveranno altre informazioni e foto». Ed eccole con più particolari:
Ore 3:40: Sono state alzate le sbarre del pasaggio a livelo, ma nessun treno in vista. In questo momento i manifestanti, che si trovano sui marciapiedi davanti ai binari vengono caricati dalla polizia (circa 200 rappresentanti delle forze dell'ordine sono presenti), spinti indietro a manganellate fino alla statale e bloccati contro un muro....
Il testo integrale dell' articolo su http://energiapalombo.blogspot.com
venerdì 4 febbraio 2011
N. 35 dell' Osservatorio settimanale sulle tendenze della questione energetica
Petrolio
Le tensioni in Egitto tengono alti i prezzi, il Brent leggermente sotto i 100 $/b e il WTI leggermente sotto i 90$/b. Da seguire la forbice tra i due tipi di petrolio, il prezzo del Brent (mercato europeo, petrolio del Mare del Nord) solitamente e' minore del WTI, ora si e' apprezzato notevolmente, i motivi possono essere vari, e' un fatto pero' che in quella parte del mondo la produzione ha iniziato a declinare e con una decrescita sostenuta.Su questo tema e' possibile leggere su http://energiapalombo.blogspot.com un articolo di Terenzio Longobardi, tratto dal sito dell' Aspo Italia.
E' possibile leggere l testo integrale dell' Osservatorio sul blog http://energiapalombo.blogspot.com
Le tensioni in Egitto tengono alti i prezzi, il Brent leggermente sotto i 100 $/b e il WTI leggermente sotto i 90$/b. Da seguire la forbice tra i due tipi di petrolio, il prezzo del Brent (mercato europeo, petrolio del Mare del Nord) solitamente e' minore del WTI, ora si e' apprezzato notevolmente, i motivi possono essere vari, e' un fatto pero' che in quella parte del mondo la produzione ha iniziato a declinare e con una decrescita sostenuta.Su questo tema e' possibile leggere su http://energiapalombo.blogspot.com un articolo di Terenzio Longobardi, tratto dal sito dell' Aspo Italia.
E' possibile leggere l testo integrale dell' Osservatorio sul blog http://energiapalombo.blogspot.com
Brent stacca in salita WTI
di Terenzio Longobardi
Chi segue l’andamento dei prezzi petroliferi si sarà accorto che da qualche mese i futures trattati sul mercato di Londra (Brent) hanno superato i cento dollari al barile e superato in salita quelli trattati sul mercato di New York (WTI), oggi di poco superiori ai 90 dollari al barile.
In questo articolo sul Sole 24 Ore, Andrea Franceschi si esercita in un’analisi del fenomeno che tira in ballo vari fattori, tra cui l’immancabile speculazione. Ma i giornalisti economici italiani assomigliano molto a degli struzzi australiani e preferiscono spesso nascondere la testa nella sabbia, trascurando l’aspetto fisico del problema e cioè il rapido esaurimento del petrolio di riferimento per il Brent, cioè quello prodotto dai giacimenti del Mare del Nord.
Il picco di questo petrolio c’è stato intorno al 2000 e negli ultimi anni il calo ha assunto proporzioni impressionanti. Nel grafico allegato, estratto da The Oil Drum, è possibile osservare il crollo della produzione negli ultimi due anni: Il Mare del Nord, che comprende “United Kingdom Offshore, Norway, Denmark, Netherlands Offshore, and Germany Offshore” ha perso il 20% della sua produzione in 24 mesi. La produzione è diminuita di 600.000 barili al giorno in questo periodo.”.........
Fonte www.aspoitalia.it
L' articolo integrale si puo' leggere sul blog http://energiapalombo.blogspot.com
Chi segue l’andamento dei prezzi petroliferi si sarà accorto che da qualche mese i futures trattati sul mercato di Londra (Brent) hanno superato i cento dollari al barile e superato in salita quelli trattati sul mercato di New York (WTI), oggi di poco superiori ai 90 dollari al barile.
In questo articolo sul Sole 24 Ore, Andrea Franceschi si esercita in un’analisi del fenomeno che tira in ballo vari fattori, tra cui l’immancabile speculazione. Ma i giornalisti economici italiani assomigliano molto a degli struzzi australiani e preferiscono spesso nascondere la testa nella sabbia, trascurando l’aspetto fisico del problema e cioè il rapido esaurimento del petrolio di riferimento per il Brent, cioè quello prodotto dai giacimenti del Mare del Nord.
Il picco di questo petrolio c’è stato intorno al 2000 e negli ultimi anni il calo ha assunto proporzioni impressionanti. Nel grafico allegato, estratto da The Oil Drum, è possibile osservare il crollo della produzione negli ultimi due anni: Il Mare del Nord, che comprende “United Kingdom Offshore, Norway, Denmark, Netherlands Offshore, and Germany Offshore” ha perso il 20% della sua produzione in 24 mesi. La produzione è diminuita di 600.000 barili al giorno in questo periodo.”.........
Fonte www.aspoitalia.it
L' articolo integrale si puo' leggere sul blog http://energiapalombo.blogspot.com
giovedì 3 febbraio 2011
Egitto, appello per una manifestazione nazionale unitaria a fianco dei popoli arabi in lotta
Appello per una iniziativa unitaria nazionale:
A fianco di tutti i popoli arabi in lotta
Contro le dinastie oppressive e corrotte
Dalla Tunisia all’Egitto milioni di nostri fratelli e sorelle stanno lottando per la libertà e per affermare una vita migliore. Abbiamo il dovere e la responsabilità di sostenerli, prendendo l’inizativa anche in questo Paese. E’ nostra intenzione promuovere una manifestazione nazionale, che unisca la gente di buona volontà, gli antirazzisti, la gente solidale e innanzitutto i fratelli e le sorelle immigrati, che esprima solidarietà a fianco di chi lotta nel mondo arabo e dia forza alle loro ragioni.
Per discutere dell’iniziativa proponiamo sulla base di questo appello una assemblea nazionale domenica 6 febbraio 2011 ore 14 presso “Chiama Milano” L.go corsia dei servi 11 (metro S.Babila)
Associazione Antirazzista Interetnica 3 Febbraio
A fianco di tutti i popoli arabi in lotta
Contro le dinastie oppressive e corrotte
Dalla Tunisia all’Egitto milioni di nostri fratelli e sorelle stanno lottando per la libertà e per affermare una vita migliore. Abbiamo il dovere e la responsabilità di sostenerli, prendendo l’inizativa anche in questo Paese. E’ nostra intenzione promuovere una manifestazione nazionale, che unisca la gente di buona volontà, gli antirazzisti, la gente solidale e innanzitutto i fratelli e le sorelle immigrati, che esprima solidarietà a fianco di chi lotta nel mondo arabo e dia forza alle loro ragioni.
Per discutere dell’iniziativa proponiamo sulla base di questo appello una assemblea nazionale domenica 6 febbraio 2011 ore 14 presso “Chiama Milano” L.go corsia dei servi 11 (metro S.Babila)
Associazione Antirazzista Interetnica 3 Febbraio
Crisi, la lezione svedese
Il governo di Stoccolma è uscito dalla crisi nel migliore dei modi: niente soldi a banche e imprese non competitive a vantaggio di ricerca e sviluppo
Nel discusso incontro annuale del World Economic Forum a Davos, la Svezia ha dato lezioni di finanza e di economia. L'esperienza portata dal Primo ministro Fredrik Reinfeldt ha dimostrato che è possibile trascinare un paese fuori dalla crisi in maniera etica.
Non è mera propaganda politica l'annuncio che la Svezia sia uscita da una delle più gravi recessioni a livello planetario. Stoccolma rappresenta indubbiamente un modello che deve essere studiato dagli altri governi. È vero, il Paese scandinavo non rientra nell'eurozona dal momento che un referendum popolare sancì la permanenza della Corona che adesso vanta un'invidiale stabilità sul mercato monetario.
Differentemente da quanto accaduto nel resto del mondo, il governo svedese non ha dato un solo centesimo dei contribuenti alle banche o alle aziende in crisi non competitive: il concetto di Tbtf, Too big to fail (azienda troppo grande per lasciarla fallire) non esiste. Invece di utilizzare i soldi dei contribuenti per colmare i buchi delle aziende e le perdite industriali, il governo svedese ha spostato tutti gli investimenti in ricerca e sviluppo. La scelta è caduta sulla salvaguardia del lavoro - vero elemento di stabilità - più che su un effimero ripianamento dei debiti privati.
Altrove, i governi cercavano misure per arginare le perdite per riparare errori verificatisi nel passato; a Stoccolma si pensava al futuro, si investiva per ciò che doveva avvenire e ridurre al minimo i costi di una nuova eventuale crisi. A proposito di crisi che verranno (si tratta solo di "quando" non certo di "se"), la Svezia - che ha imparato la lezione agli inizi degli anni '90 quando il sistema bancario nazionale fu colpito nel profondo - ha istituito una "tassa di stabilità" a carico delle banche: un contributo su base annua versato dagli istituti di credito e finanziari per la formazione di un fondo gestito da un'agenzia governativa che ha lo scopo di "salvare" le banche da una futura recessione. In questo modo il governo non dovrà accollarsi titoli tossici - che cadrebbero sulle spalle dei contribuenti - ma sarebbero le banche stesse a pagare il proprio "salvataggio".
L'anno che si è appena concluso ha fatto segnare una decisiva crescita alla Svezia, nonostante le pessime premesse. Il documento programmatico di budget per il 2010 fissava quattro punti cardine: fermare la disoccupazione, difendere il sistema del welfare nazionale, incoraggiare l'avvio di nuove imprese e lo sviluppo di quelle esistenti, proteggere l'ambiente. (A chi non piacerebbe un documento del genere?). I risultati raggiunti nel 2010 hanno posto le basi perché si possa prevedere una crescita dell'economia svedese pari al 4,5 per cento per il 2011 e di un ulteriore 2,8 per cento per il 2012. La disoccupazione dovrebbe scendere sotto la soglia del 7 per cento a fronte di un incremento (accettabile) del tasso inflattivo di 0,3 punti percentuali (dal 2,7 al 3) che consentirebbe di raggiungere il 4 per cento di disoccupazione entro il 2014.
Le schema da cui partiva il governo di Stoccolma era rigido e al tempo stesso semplice: anche in profonda recessione, i servizi di assistenza sociale, sanitaria - così come il sistema giudiziario - devono essere garantiti. Anziché dare soldi alle banche, il governo ha stanziato fondi di una certa consistenza per i comuni così da assicurare un'eccellente sistema scolastico e un supporto agli anziani (che più degli altri risentono della crisi) riducendo le tasse sulle pensioni.
Ovviamente, non si può essere certi che la ricetta svedese sia applicabile a tutti i paesi. Ma la Svezia ce l'ha fatta e, a quanto pare, nel modo migliore per i propri cittadini senza ricorrere a manovre occulte.
Nel discusso incontro annuale del World Economic Forum a Davos, la Svezia ha dato lezioni di finanza e di economia. L'esperienza portata dal Primo ministro Fredrik Reinfeldt ha dimostrato che è possibile trascinare un paese fuori dalla crisi in maniera etica.
Non è mera propaganda politica l'annuncio che la Svezia sia uscita da una delle più gravi recessioni a livello planetario. Stoccolma rappresenta indubbiamente un modello che deve essere studiato dagli altri governi. È vero, il Paese scandinavo non rientra nell'eurozona dal momento che un referendum popolare sancì la permanenza della Corona che adesso vanta un'invidiale stabilità sul mercato monetario.
Differentemente da quanto accaduto nel resto del mondo, il governo svedese non ha dato un solo centesimo dei contribuenti alle banche o alle aziende in crisi non competitive: il concetto di Tbtf, Too big to fail (azienda troppo grande per lasciarla fallire) non esiste. Invece di utilizzare i soldi dei contribuenti per colmare i buchi delle aziende e le perdite industriali, il governo svedese ha spostato tutti gli investimenti in ricerca e sviluppo. La scelta è caduta sulla salvaguardia del lavoro - vero elemento di stabilità - più che su un effimero ripianamento dei debiti privati.
Altrove, i governi cercavano misure per arginare le perdite per riparare errori verificatisi nel passato; a Stoccolma si pensava al futuro, si investiva per ciò che doveva avvenire e ridurre al minimo i costi di una nuova eventuale crisi. A proposito di crisi che verranno (si tratta solo di "quando" non certo di "se"), la Svezia - che ha imparato la lezione agli inizi degli anni '90 quando il sistema bancario nazionale fu colpito nel profondo - ha istituito una "tassa di stabilità" a carico delle banche: un contributo su base annua versato dagli istituti di credito e finanziari per la formazione di un fondo gestito da un'agenzia governativa che ha lo scopo di "salvare" le banche da una futura recessione. In questo modo il governo non dovrà accollarsi titoli tossici - che cadrebbero sulle spalle dei contribuenti - ma sarebbero le banche stesse a pagare il proprio "salvataggio".
L'anno che si è appena concluso ha fatto segnare una decisiva crescita alla Svezia, nonostante le pessime premesse. Il documento programmatico di budget per il 2010 fissava quattro punti cardine: fermare la disoccupazione, difendere il sistema del welfare nazionale, incoraggiare l'avvio di nuove imprese e lo sviluppo di quelle esistenti, proteggere l'ambiente. (A chi non piacerebbe un documento del genere?). I risultati raggiunti nel 2010 hanno posto le basi perché si possa prevedere una crescita dell'economia svedese pari al 4,5 per cento per il 2011 e di un ulteriore 2,8 per cento per il 2012. La disoccupazione dovrebbe scendere sotto la soglia del 7 per cento a fronte di un incremento (accettabile) del tasso inflattivo di 0,3 punti percentuali (dal 2,7 al 3) che consentirebbe di raggiungere il 4 per cento di disoccupazione entro il 2014.
Le schema da cui partiva il governo di Stoccolma era rigido e al tempo stesso semplice: anche in profonda recessione, i servizi di assistenza sociale, sanitaria - così come il sistema giudiziario - devono essere garantiti. Anziché dare soldi alle banche, il governo ha stanziato fondi di una certa consistenza per i comuni così da assicurare un'eccellente sistema scolastico e un supporto agli anziani (che più degli altri risentono della crisi) riducendo le tasse sulle pensioni.
Ovviamente, non si può essere certi che la ricetta svedese sia applicabile a tutti i paesi. Ma la Svezia ce l'ha fatta e, a quanto pare, nel modo migliore per i propri cittadini senza ricorrere a manovre occulte.
martedì 1 febbraio 2011
Algeria, ondata di scioperi in tutto il paese
I settori interessati vanno dall'amministrazione pubblica, all'università fino ai disoccupati. Tutti a chiedere migliori condizioni di vita
Scioperi e proteste di infermieri, studenti, impiegati ma anche del Collettivo dei disoccupati del Sud sono in programma per i prossimi giorni in diverse zone dell'Algeria, mentre ieri gli abitanti di due villaggi della Cabilia hanno bloccato le strade nazionali. A Bouira e Oumaadane, vicino a Bejaia, gli abitanti sono scesi in strada per protestare contro lo stato di degrado in cui vivono e reclamare l'allaccio del villaggio a gas ed elettricità, ma anche strade praticabili.
Intanto, prosegue lo sciopero degli impiegati della Banca Bdl, in segno di solidarietà con un agente della sicurezza dell'agenzia che domenica ha tentato di darsi fuoco insieme alla figlia portatrice di handicap. Ad Algeri, il Sindacato dei paramedici (Sap), ha annunciato che da oggi gli infermieri daranno vita ad uno sciopero di due giorni per rivendicare un nuovo statuto e aumenti salariali. Dall'8 febbraio partirà poi uno sciopero a tempo indeterminato dal momento che il ministero della Salute non ha mantenuto le promesse di nuove misure entro la fine del 2010.
Gli studenti universitari manifesteranno invece oggi a Tizi Ouzou, capoluogo della Cabilia, per denunciare "la condizione disastrosa" delle università algerine. Il personale del settore dell'istruzione ha annunciato un sit in davanti al ministero dell'Educazione il 14 febbraio mentre il 6 febbraio il Collettivo dei disoccupati del Sud si riunirà davanti al ministero del lavoro
Fonte www.peacereporte.it
Scioperi e proteste di infermieri, studenti, impiegati ma anche del Collettivo dei disoccupati del Sud sono in programma per i prossimi giorni in diverse zone dell'Algeria, mentre ieri gli abitanti di due villaggi della Cabilia hanno bloccato le strade nazionali. A Bouira e Oumaadane, vicino a Bejaia, gli abitanti sono scesi in strada per protestare contro lo stato di degrado in cui vivono e reclamare l'allaccio del villaggio a gas ed elettricità, ma anche strade praticabili.
Intanto, prosegue lo sciopero degli impiegati della Banca Bdl, in segno di solidarietà con un agente della sicurezza dell'agenzia che domenica ha tentato di darsi fuoco insieme alla figlia portatrice di handicap. Ad Algeri, il Sindacato dei paramedici (Sap), ha annunciato che da oggi gli infermieri daranno vita ad uno sciopero di due giorni per rivendicare un nuovo statuto e aumenti salariali. Dall'8 febbraio partirà poi uno sciopero a tempo indeterminato dal momento che il ministero della Salute non ha mantenuto le promesse di nuove misure entro la fine del 2010.
Gli studenti universitari manifesteranno invece oggi a Tizi Ouzou, capoluogo della Cabilia, per denunciare "la condizione disastrosa" delle università algerine. Il personale del settore dell'istruzione ha annunciato un sit in davanti al ministero dell'Educazione il 14 febbraio mentre il 6 febbraio il Collettivo dei disoccupati del Sud si riunirà davanti al ministero del lavoro
Fonte www.peacereporte.it
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