giovedì 18 ottobre 2012

Bhadrakumar - La Russia getta ponti sulle divisioni in Medio Oriente


Mercoledì 17 Ottobre 2012 10:50

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La Russia getta ponti sulle divisioni in Medio Oriente
Armi all'Iraq, contatti con la Turchia, dialogo con i sauditi e i Fratelli Misulmani in Egitto. La Russia cerca un nuovo spazio in Medio Oriente.



Un accordo multi-miliardario in dollari per forniture di armi all’Iraq, un incontro al vertice con la Turchia, manovre per migliorare i rapporti e ricucire gli strappi con l’Arabia Saudita, l’esordio di contatti politici con “Sphinx”, vale a dire con i Fratelli Musulmani dell’Egitto - tutto questo si prevede avvenga entro i termini di un mese turbolento per il Medio Oriente. E tutto questo sta avvenendo quando il “ritorno” degli Stati Uniti nella regione, dato il trambusto delle elezioni presidenziali di novembre, sembra ancora un sogno lontano.

In poche parole, la Russia si presenta all’improvviso e inaspettatamente in tutto il Medio Oriente.

Mosca ha annunciato che martedì 9 ottobre, in cui il primo ministro iracheno Nouri al-Maliki si trovava nella capitale russa, i due paesi hanno firmato contratti per un valore di “più di” 4,2 miliardi di dollari per una fornitura di armi, che comprende l’acquisto da parte dell’Iraq di 30 elicotteri d’assalto Mi-28 e di 42 sistemi missilistici terra-aria Pantsir-S1, che possono essere utilizzati anche per scopi di difesa contro attacchi di jet.

La dichiarazione congiunta russo-irachena rilasciata a Mosca ha rivelato che trattative su questa vendita di armi si erano svolte nel corso degli ultimi cinque mesi, e che ulteriori colloqui stanno procedendo per l’acquisto iracheno di aerei da combattimento MiG-29, pesanti mezzi corazzati e altri armamenti.

Un annuncio del Cremlino dichiarava che Maliki doveva incontrare il presidente Vladimir Putin il mercoledì, per mettere a fuoco la discussione sulla cooperazione energetica tra la Russia e l’Iraq.

Questa notizia sensazionale creerà molta inquietudine nei politici degli Stati Uniti.

I rapporti dicono che a Baghdad il telefono aveva continuato a squillare nell’ufficio di Maliki non appena era trapelato che stava recandosi a Mosca e qualcosa di grosso era in corso d’opera. Interrogativi venivano presentati dal Dipartimento di Stato e dal Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti su ciò che avesse giustificato un viaggio del genere, proprio in questo momento.

Il punto è che Maliki rimane ancora un enigma per Washington. Egli è senza dubbio un amico degli Stati Uniti, ma forse è anche “più che un amico” per l’Iran. Ora, a quanto pare, è anche entusiasta della Russia, …allo stesso modo di Saddam Hussein!

Più volte Washington e Ankara gli avevano procurato insofferenze e fastidi, dando per scontata la sua ossequiosità, perfino considerando cancellato il suo futuro politico, quando avevano stipulato accordi con il Kurdistan settentrionale su contratti petroliferi lucrativi, ignorando le sue proteste, che l’Iraq rimane uno Stato sovrano e Baghdad è la sua capitale, e che il paese ha una costituzione in base alla quale i paesi stranieri non dovrebbero avere rapporti diretti con le sue regioni by-passando la capitale e il governo centrale.

Dare il benservito a “Big Oil” 

Gli Stati Uniti e la Turchia non solo hanno ignorato le proteste di Maliki, ma anche lo hanno redarguito nel suo contrastare il loro progetto di un “cambio di regime” in Siria e per il suo convinto sostegno al presidente Bashar al-Assad.

Ultimamente, lo hanno anche irritato per le sue agevolazioni nei confronti dell’Iran riguardanti l’invio di forniture al regime assediato in Siria.

Poi sono andati oltre ad ogni regola di correttezza, e hanno dato asilo a un leader sunnita iracheno, un latitante in base alla legge irachena.

Attualmente stanno cercando di riunire in Iraq i gruppi sunniti più disparati in una mossa minacciosa che potrebbe portare alla balcanizzazione dell’Iraq.

Grazie alle interferenze degli Stati Uniti e della Turchia, il Kurdistan è già una regione di fatto indipendente. Il piano d’azione è quello di indebolire ulteriormente l’Iraq, sponsorizzando la creazione di un’entità sunnita nell’Iraq centrale, simile al Kurdistan nel nord, in modo da confinare gli Sciiti iracheni in una regione meridionale mezzo disastrata.

La visita in Russia dimostra che Maliki sta lanciando segnali di averne avuto abbastanza, e di non volere più accettare alcun affronto alla sovranità irachena.

Mercoledì, quasi certamente egli proporrà a Putin il possibile ritorno delle compagnie petrolifere russe in Iraq con tutto il pieno apporto di investimenti e tecnologia, e di riprendere il filo da loro tralasciato al momento dell’invasione statunitense del 2003.

Ci si può aspettare che Maliki dia il benservito alle grandi compagnie petrolifere dell’Occidente (Big Oil) e a quelle turche, escludendole dal settore petrolifero iracheno. Le implicazioni sono profonde per il mercato mondiale del petrolio in quanto le favolose riserve petrolifere irachene sono paragonabili a quelle dell’Arabia Saudita.

Chiaramente, Maliki intende affermare la sovranità dell’Iraq.

Recentemente, ha deciso di interrompere l’accordo con la Turchia sottoscritto ai tempi di Saddam, che permetteva una presenza militare turca nel nord dell’Iraq per monitorare le attività dei separatisti del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Ma Ankara si è rifiutata, stigmatizzando Maliki.

L’accordo con la Russia gli permette ora di ricostruire le forze armate irachene e fa in modo che i Turchi ci pensino due volte prima di violare lo spazio aereo iracheno o che giungano alla conclusione che la loro presenza militare nel nord dell’Iraq possa continuare incontrastata.

Questo significa che l’Iraq è su una rotta di sfida strategica agli Stati Uniti?

Per l’Iraq rimane necessario che gli Stati Uniti si considerino ancora il numero uno come fornitori stabili di armi all’Iraq. L’Iraq si aspetta la consegna di 30 aerei da battaglia F-16.

Una sfida strategica degli Stati Uniti è ben lontana dai pensieri di Maliki - almeno, per ora.

Il messaggio di Maliki necessita di essere preso molto più sul serio, quando ribadisce che l’Iraq è un paese indipendente. Probabilmente, questo messaggio non è molto diverso dalle istanze politiche dell’Egitto sotto la presidenza di Mohammed Morsi.

In poche parole, gli Stati Uniti devono fare i conti con il corso degli avvenimenti in campo, come la decisione di Maliki di rivitalizzare i legami militari con la Russia o la decisione di Morsi di effettuare la sua prima visita di Stato in Cina. In teoria, potremmo assistere ad una svolta anche in Egitto, che sta accingendosi a ravvivare i legami con la Russia.

È un dato di fatto, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov sarà in visita al Cairo all’inizio di novembre nel primo scambio internazionale ad alto livello del governo Morsi.

Infatti, molto dipende dalla calma e compostezza con la quale gli Stati Uniti sono in grado di adattarsi alle nuove realtà del Medio Oriente.

Allo stato attuale, gli Stati Uniti sono riusciti a vendere all’Iraq armamenti per un valore pari a 6 miliardi di dollari. Quindi, si sono posizionati comodamente. La reazione iniziale del Dipartimento di Stato usamericano trasudava fiducia. La portavoce Victoria Nuland ha affermato che l’accordo con la Russia non significa alcun ridimensionamento della cooperazione “interforze” fra Iraq e Stati Uniti, che risulta sempre “molto ampia e decisamente profonda”.

La Nuland ha sottolineato come siano in corso trattative “per qualcosa come 467 contratti di vendita per forniture militari” all’Iraq per un valore di più di 12 miliardi di dollari, “se tutti i contratti vanno in porto”. Inoltre ha ribadito: “Stiamo facendo affari con l’Iraq per vendite militari per un ammontare di 12,3 miliardi di dollari, per cui non credo che ci si possa preoccupare per le relazioni con l’Iraq, che non sono nulla di meno che le più strette e intense.”

Alchimie nuove, mai sperimentate 

Ma, suvvia, non si può sorvolare sul tono di apprensione presente nelle parole della Nuland.

La verità è semplice, i “Russi stanno arrivando”, e questa volta sono Russi capitalisti e globalisti, che peraltro conoscono il mercato iracheno, ed inoltre l’esercito iracheno ha familiarità con l’armamento russo. Durante l’era di Saddam, l’Iraq era un importante acquirente di armamenti russi e Mosca ha stimato di avere perso contratti del valore di circa 8 miliardi di dollari, grazie al “cambio di regime” a Baghdad nel 2003, sponsorizzato dagli Stati Uniti.

Si può ben immaginare che la Russia farà tutto il possibile per riguadagnare il primo posto nel mercato iracheno e per recuperare il tempo perduto. Per di più, le operazioni commerciali sugli armamenti hanno da sempre un contenuto politico e strategico.

Nel breve termine, un qualcosa di “mai sperimentato” sta per arrivare, se Maliki decidesse per l’opzione di condividere le risorse irachene con i suoi stretti alleati iraniani e siriani.

Significativamente, anche delegazioni ad alto livello dalla Siria e dall’Iran hanno visitato Mosca negli ultimi mesi.

Si solleveranno moti di perplessità e meraviglia per il fatto che il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad sta pianificando una sua visita a Baghdad a breve.

Infatti, nel momento che l’accordo sugli armamenti russo-iracheno è stato firmato a Mosca, il comandante della marina della Guardia Rivoluzionaria iraniana è arrivato in visita in Iraq, a significare lo stretto legame tra Baghdad e Teheran.

Senza dubbio, Washington sta assistendo ansiosa ai movimenti su questo fronte.

Allo stesso tempo, esperti russi hanno teorizzato in passato circa l’emergere di un nuovo “blocco” nel cuore del Medio Oriente, comprendente Iran, Iraq, Siria e Libano, con cui Mosca può sperare di avere relazioni particolari.

Tuttavia, fin d’ora si palesano i segni incipienti che la diplomazia regionale di Mosca in Medio Oriente sta cambiando marcia, determinata com’è a colmare le divisioni regionali che la crisi siriana sta procurando. Naturalmente, l’impresa sembra impressionante nella sua assoluta audacia. Ma è per questo che Putin prevede di recarsi in Turchia la prossima settimana; Lavrov confida di recarsi a Riyadh ai primi di novembre per partecipare alla seconda sessione del Dialogo Strategico della Russia con il Consiglio di Cooperazione degli Stati Arabi del Golfo (che già era stato bruscamente rinviato dal regime saudita come affronto a Mosca per il suo sostegno tenace nei confronti del regime di Assad in Siria).

Inoltre Lavrov effettuerà una “visita sincronizzata” al Cairo per incontrare la nuova dirigenza egiziana e funzionari della Lega Araba.

Nel divulgare la programmazione delle missioni diplomatiche di Lavrov, il vice ministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov ha aggiunto: “Noi [la Russia] siamo interessati al dialogo e ad un aperto confronto di collaborazione con i nostri colleghi arabi del Golfo che, in particolare l’Arabia Saudita, il Qatar e altri, giocano un ruolo piuttosto attivo e non privo di significato negli affari siriani. Abbiamo sempre favorito la discussione su questi temi, anche in presenza di disaccordi, ad un tavolo delle trattative, soprattutto perché utilizziamo il meccanismo del Dialogo Strategico.”

Senza dubbio, gli alchimisti russi stanno sperimentando nuove formulazioni, mai finora processate, che possano aiutare a guarire le ferite siriane.

Ma, come Bogdanov ha cercato di spiegare, queste formulazioni sono anche farmaci ad ampio spettro che aiuteranno a vivacizzare il metabolismo complessivo dei legami regionali della Russia con quei partner recalcitranti, al momento non ben disposti a causa della Siria.

Idealmente, Mosca auspica che il processo di guarigione venga incorporato all’interno di un miglioramento complessivo dei rapporti economici reciprocamente vantaggiosi.

Ad esempio, i rapporti della Russia con la Turchia e l’Arabia Saudita andavano a vele spiegate durante la fase del periodo pre-crisi in Siria. Mentre i rapporti con la Turchia recentemente hanno subito in qualche modo una fase di stagnazione, i legami russo-sauditi hanno incontrato serie difficoltà.

Evidentemente, Mosca è intenzionata a ripristinare lo status quo ante. La parte interessante è la valutazione della diplomazia russa, che la congiuntura attuale offre una finestra di opportunità per aperture nei confronti di Ankara e Riyadh, a prescindere dall’incessante bagno di sangue in Siria.

Lo sfondo a ciò che sta accadendo è significativo. Nella valutazione di Mosca, evidentemente, ci potrebbero essere segnali di speranza per un rinnovato approccio alla ricerca di una soluzione politica alla crisi siriana, anche se il cielo presenta un aspetto denso di nubi pesanti.

Da questo modo di procedere e da questa accorta valutazione ne potrebbe risultare un qualcosa di valore.

Stando così le cose, la Turchia e l’Arabia Saudita devono affrontare una difficile situazione, visto come si presentano gli eventi in Siria. Nemmeno pensavano che il regime siriano avrebbe avuto una base sociale e una volontà politica disposte a resistere; entrambi i paesi sono frustrati per il fatto che un qualsiasi “cambio di regime” in Siria necessiti di un lungo percorso denso di conseguenze imprevedibili, non solo per la nazione siriana, ma anche per l’intera regione e anche per loro stessi.

Ancora, mentre non è riscontrabile un allentamento nella tenace opposizione a un intervento esterno in Siria, opposizione che Mosca e Pechino hanno decisamente messo in atto, è da escludere da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite un mandato per un intervento.

D’altro canto, senza un mandato delle Nazioni Unite, un intervento occidentale è improbabile e, in ogni caso, gli Stati Uniti restano disinteressati, mentre i comportamenti degli Europei saranno condizionati dalle priorità delle loro economie, che, secondo le ultime valutazioni del Fondo Monetario Internazionale, stanno scivolando in una recessione prolungata, da cui sembra altamente improbabile un recupero a breve termine.

Un Sultano con un Nobel 

In breve, la Turchia e l’Arabia Saudita hanno nelle loro mani un vaso di Pandora che contiene tutti gli elementi ribelli siriani, che non solo fra loro si differenziano profondamente ma anche potrebbero rivelarsi problematici in futuro.

Per quanto riguarda la Turchia, l’opinione pubblica popolare è schiacciante contro un intervento in Siria, con o senza mandato delle Nazioni Unite. Il popolo turco rimane ben lontano dall’essere convinto che i suoi interessi nazionali vitali siano in gioco in Siria. Inoltre, anche l’economia turca sta rallentando, e la profonda recessione in Europa può creare problemi alle fortune economiche della Turchia.

La carta vincente della dirigenza dell’AKP finora è stata di avere condotto la Turchia ad un periodo di prosperità economica senza precedenti.

[Il Partito per la giustizia e lo sviluppo (in turco Adalet ve Kalkınma Partisi, abbreviato AKP) è un partito islamico-conservatore turco. L’AKP è il partito al potere in Turchia dal 2002. Il suo presidente, Recep Tayyip Erdoğan, è dal 2003 il primo ministro della Turchia.]

Sempre più spesso, quindi, tutto questo attivismo rispetto alla questione siriana sembra più la strampalata idea del ministro degli Esteri Ahmet Davitoglu, un accademico convertito alla politica, e del primo ministro Recep Erdogan, piuttosto che una ben pensata iniziativa di politica estera.

Ma anche in questo caso, le priorità politiche di Erdogan stanno per cambiare, mentre sta preparando il suo tentativo di diventare nel 2014 il presidente esecutivo della Turchia secondo una nuova costituzione.

Il pantano siriano può minacciare le sue ambizioni politiche, e già Erdogan intuisce la rivalità del presidente uscente Abdullah Gül, i cui indici di consenso popolare sono di gran lunga migliori dei suoi. In sintesi, Erdogan vuole un cambio di regime in Siria e sta premendo per questo, ma lo vuole subito. Non può aspettare un tempo indefinito, dal momento che il proprio calendario politico ne verrebbe sconvolto. D’altra parte, è anche preoccupato che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama non abbia tanta urgenza e che gli Europei siano distratti dai loro disturbi.

Quindi, tutti i fattori presi in considerazione non dovrebbero suscitare alcuna sorpresa per la visita di Putin in Turchia come priorità urgente - anche se Erdogan ha visitato la Russia appena due mesi fa. Putin ha eccellenti relazioni personali con Erdogan, determinanti per la realizzazione di una collaborazione russo-turca di un così alto livello qualitativo, da non riscontrasi negli ultimi anni.

Putin è un uomo di stato molto attento e concentrato. Egli desidera far rivivere la “verve del tango” russo-turco. Nel processo in corso, il contratto per la costruzione in Turchia di una centrale nucleare da 25 miliardi di dollari potrebbe essere fatto avanzare fino alla fase di attuazione, e la Russia potrebbe avvalersi altresì di contratti per vendere armamenti alla Turchia.

Nella valutazione russa, l’ideologia di fondo di Erdogan nei termini del perseguimento di una politica estera indipendente ha bisogno di essere incoraggiata, nonostante i recenti scostamenti, come la decisione di dispiegare sul suolo turco un sistema di difesa missilistica degli Stati Uniti.

Nel quadro di una rinascita della bonarietà nelle relazioni russo-turche, e approfittando degli sforzi penosi e degli interrogativi sulla questione siriana da parte di Erdogan, le aspettative di Putin portano alla possibilità di un proficuo dialogo tra Mosca e Ankara alla risoluta ricerca di una soluzione politica alla crisi in Siria.

Dopo tutto, questa è la stagione dei Nobel! Se Erdogan venisse convinto di poter diventare il primo Sultano - e probabilmente, anche l’ultimo, nella storia ottomana - a vincere un premio Nobel per la pace, Putin avrebbe recato un suo enorme personale contributo alla pace nel mondo.

http://www.atimes.com/atimes/Central_Asia/NJ11Ag01.html

http://tlaxcala-int.org/article.asp?reference=8356

L’ambasciatore M. K. Bhadrakumar è stato diplomatico di carriera nel Servizio per gli Affari Esteri Indiano. Ha ricoperto incarichi nell’Unione Sovietica, in Corea del Sud, nello Sri Lanka, in Germania, Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan, Kuwait e Turchia. 

(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)

11 ottobre 2012

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