Qualsiasi dicotomica frattura tra migranti e nativi è improponibile, anche perché noi umani siamo tutti migranti, se consideriamo le nostre origini più remote. Il razzismo come ideologia moderna ha radici in America. Scriveva Gramsci: «Per il Grant i mediterranei sono una razza inferiore e la loro immigrazione è un pericolo; essa è peggiore di una conquista armata e va trasformando New York e gran parte degli Stati Uniti in una "cloaca gentium"». Ma la fuga dal proprio paese è causata proprio da una guerra di conquista, più spesso da una guerra economica portata dalla modernizzazione occidentale con le armi delle monoculture industrializzate, con la rapina delle risorse minerarie altrui, con i brevetti estesi anche ai prodotti locali e ancestrali. Sono eliminate o soffocate le attività lavorative tradizionali perché, là dove vivono tre quarti della popolazione mondiale e metà degli abitanti sono contadini, «il paese più progredito vende le sue merci al di sopra del loro valore, benché più a buon mercato» dei concorrenti. Così scriveva Marx. La sconfitta del razzismo, dunque, non è uno dei nostri problemi; è il problema, sia nel conflitto tra lavoro e capitale, sia nella ricerca di una via di uscita dalla crisi della democrazia e dello Stato nazione. La cittadinanza agli immigrati è tanto più rifiutata quanto più si aggrava, nei nostri paesi, la crisi della cittadinanza in generale.
E' un «apartheid a livello globale», sostiene Samir Amin, conseguente a «una accumulazione per esproprio» che, come quella primitiva, permane in tutta la storia del capitalismo. Vi è chi vede e teme, invece, un sistema che include le sue vittime. Direi che include nel suo "pensiero unico" anche gli esclusi. Dividendoli e stratificandoli su molteplici livelli di crescente esclusione, il sistema li fa nondimeno partecipi della sua dura logica competitiva, incitando alla lotta degli ultimi contro gli ultimissimi. Anche oggi il potere di vita e di morte è esercitato dalla "razza padrona", non tanto con gli spari delle varie Rosarno, quanto con i naufragi senza soccorso, con le leggi che vietano gli sbarchi dei clandestini e di fatto ne decretano la pena capitale. L'odio dell'europeo incolto verso gli immigrati misconosce l'irreversibilità dei processi che hanno oggi unificato il mondo, pur se pessimamente. Non sa neppure che, tra pochi decenni, gli "altri" (oggi in grande maggioranza tra la popolazione mondiale, per il peso demografico dei continenti extra-europei) saranno maggioranza anche in ciascuno dei nostri paesi. L'europeo incolto ignora che dalle divisioni tra i lavoratori anche quelli metropolitani sono colpiti nei loro salari e nel loro tenore di vita
Ma, oltre che da abissale incultura, l'odio per l'immigrato affiora da una sorta di inconscio collettivo di auto-colpevolizzazione. Giacché quell'europeo infelice, nel temere che ogni immigrato sia un criminale per nascita o per vocazione, trasferisce e vede in lui incarnata proprio la criminalità degli stessi popoli "civili" colonizzatori che, nei secoli, hanno massacrato e umiliato la sua gente e hanno depredato la sua terra, con industriosi e moderni impedimenti frapposti all'esercizio delle sue laboriose virtù secolari, alla sua agricoltura "primitiva" ma in passato sufficiente per procurargli acqua, alimenti e vita.
Se negli anni della guerra fredda i lavoratori occidentali lottavano con successo, anche perché presumevano (o si illudevano) di ricevere dai paesi est-europei un esempio e un incitamento, gli odierni bassi salari est-europei offrono un duplice vantaggio al capitale globale che, minacciando di trasferire in Polonia e in Serbia altri stabilimenti ancora ubicati a Pomigliano o a Termini Imerese o anche a Mirafiori, può suscitare rivalità e divisioni tra i lavoratori italiani e quelli serbi o polacchi. Questa nuova tecnica del dominio convince forse non pochi lavoratori che, per venir fuori dalla crisi, unici rimedi sarebbero abbassare i salari, cancellare i diritti (anche costituzionali) e assecondare i disegni delle imprese. La condivisione popolare del neoliberismo ricondurrà le maggioranze a votare per le destre, nelle probabili elezioni politiche, e quindi farà della democrazia autoritaria e populista un mezzo più efficace del fascismo per salvaguardare, egemonicamente, il dominio delle forze conservatrici?
Dunque, il nuovo razzismo non è soltanto un fenomeno di imbarbarimento e di miseria morale. Esso risponde a una logica intrinseca scientemente architettata dal nuovo capitale globale per addossare la sua crisi organica al lavoro dipendente. La forzosa sottomissione degli immigrati è un ostacolo che impedisce le lotte unitarie e perciò immobilizza anche i nativi, la cui frammentazione-frustrazione (invece che incitarli contro il padronato, artefice della manovra) si lascia facilmente incitare all'odio razzista verso gli stessi immigrati, con i quali i nativi dovrebbero, al contrario, attivamente solidarizzare per difendere anche se stessi. Si mobilitino, per la solidarietà e per i diritti universali, anche i più pigri tra gli intellettuali. A seguito della manifestazione del 17 ottobre 2009, abbiamo tenuto un seminario nell'Università Roma 3, al quale hanno dato voce, insieme con il sottoscritto, Alberto Burgio, Raniero La Valle («razzismo e xenofobia hanno culturalmente innervato e accompagnato per secoli la storia e la filosofia dell'Occidente. In Italia quei fantasmi ritornano»), Giacomo Marramao, Raul Mordenti, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Dario Renzi, Annamaria Rivera e Mario Tronti, il quale ha definito gli immigrati «una sotto-classe, un sottoproletariato moderno, parte di un esercito globale di riserva, al comando della produzione, della circolazione e dello scambio capitalistici. Con dentro, una sorta di divisione etnica del lavoro. Sta di fronte al movimento operaio dei paesi sviluppati il compito di un nuovo internazionalismo».
Giuseppe Prestipino
Fonte www.liberazione.it
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